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Letteratura

“Tornate al paradiso dell’infanzia”

di Filippo Cusumano
13 Dicembre 2018

“Tornate al paradiso dell’infanzia, riconciliandovi con le vostre radici, con la vostra vita”
Questo suggerisce Giuseppe Lazzaro Danzuso, giornalista e scrittore catanese, nella prefazione al suo romanzo “Ritorno all’Amarina” che esce in questi giorni dopo essere rimasto per 17 anni nel cassetto del suo autore.
Cos’è l’Amarina?
L’Amarina è una località di villeggiatura nella zona delle Vigne di Adrano, alle pendici dell’Etna.
Ma soprattutto è un paradiso perduto.
“L’Amarina è stata il paradiso terrestre”,  scrive l’autore, “in cui ho passato le lunghe estati della mia infanzia arrampicandomi su un noce altissimo e intrecciando corone di ciclamini selvatici per deliziose fanciulle – che delusione averle riviste, ormai quasi vecchie – di cui ero perdutamente innamorato.”
Ma l’amarina, con la a minuscola, è anche l’amarena, quella specie di ciliegia marasca dal sapore asprigno che si usa per fare lo sciroppo.
Quello sciroppo che la nonna Sara e le prozie dell’autore erano tra le pochissime a saper fare nella maniera in cui va fatto: “sapurito, frisco, duciduciduci, ma ccu’ ‘dda punta d’agru giusta”
Ed è proprio aprendo una bottiglia di quello sciroppo, molti anni dopo quelle arrampicate sul noce e trovandosi a centinaia di chilometri dai luoghi della sua infanzia, che Lazzaro Danzuso si trova a pensare con infinita nostalgia al suo paradiso perduto.
E quel paradiso viene rievocato e descritto in maniera vivace e commovente.
Il linguaggio è ricchissimo di termini ed espressioni dialettali (ma per chi, diversamente dal sottoscritto, non fosse nato in Sicilia, il libro contiene alla fine un glossario).
Ma i fatti che ci vengono narrati, i personaggi che ci vengono descritti sono universali, difficile non riconoscere in essi qualcosa che ha fatto parte del nostro vissuto.
“Ritorno all’Amarina” è una specie di ricerca del tempo perduto collettiva.
Gli ultimi cinquant’anni sono stati una specie di cavalcata stressante e impetuosa, non c’è niente che non sia cambiato in maniera drastica.
Eravamo bambini che giocavano con i gessetti, quelli di oggi maneggiano computer e cellulari.
Eravamo quelli che andavano in giro con le maglie di lana e le calze rammendate, che portavano i calzoni corti anche d’inverno e avevano sempre le ginocchia sbucciate.
Usavamo i gettoni  telefonici e andavamo al liceo con la giacca e la cravatta,  ascoltavamo la Hit Parade di Lelio Luttazzi, ci divertivamo con Carosello  o con le imitazioni di Alighiero Noschese.
Oggi non sapremmo rinunciare alla nostra doccia quotidiana, dice l’autore, ma ce lo ricordiamo com’era allora?

“Il cesso era un cammarinu ‘mpicatu (appicicat0) alla casa con una sputazzata, nicu nucu (piccolo piccolo) : una balata (lapide) di pietra lavica con un pirtuso (buco) e una tavola di lignu per commògghiu (coperchio). Nel muro c’era un chiovu (chiodo) con tanti pezzi di giornali ‘mpicati. E poi c’erano ‘u vacili(bacile) di l’acqua e tanti mappini (strofinacci) per sciucàrisi (asciugarsi) manu e faccia. Il bagno invece uno se lo faceva una volta al mese nel vaciluni messo al centro della cucina, con l’acqua quariata(scaldata) sopra il fuoco di legna”.

Il libro contiene anche, nella prefazione, un piccolo manuale di istruzioni per l’uso: siamo, scrive Lazzaro Danzuso, persone passate, nel corso della loro vita, dalla preistoria alla fantascienza, è giusto ogni tanto riposarsi e guardare indietro, riflettere, quindi perchè non fate anche voi quello che ho fatto io?

“A mano a mano che leggerete questo libro, andate anche voi alla ricerca delle immagini di quando eravate bambini. Vecchie foto sbiadite di un luogo, di una casa, o di un familiare o anche di un oggetto a voi particolarmente cari.
Per ricordare, ridere, commuoversi, per mettere finalmente un po’ d’ordine”.

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