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Letteratura

Un atterraggio di fortuna

di Filippo Cusumano
1 Febbraio 2021

È convinto di essere un uomo di bell’aspetto.
Glielo lascio credere.
In realtà ha solo una faccia arguta.
Ti guarda con un’espressione tra lo stupito e l’ironico, alla Cary Grant, tanto per intenderci, come se trovasse tutto molto divertente, ma senza essere sicuro di aver capito bene.
Quando, sull’aereo per Venezia, cominciò a risalire il corridoio per poi arrivare al sedile a fianco del mio, lo guardai senza vederlo, tanto mi sembrava poco interessante.
Si sistemò al mio fianco e pochi minuti dopo il decollo già dormiva.
Lui non la racconta proprio così la storia del nostro primo incontro, la descrive come una folgorazione, ma io non credo che uno possa rimanere folgorato e poi addormentarsi come niente fosse nel giro di pochi secondi.
Il fatto è che, dopo una quarantina di minuti di volo, il comandante attirò la nostra attenzione comunicandoci che di lì a poco avremmo potuto sperimentare di persona l’ebbrezza di un atterraggio senza carrello, essendo irrimediabilmente guasto quello in dotazione al nostro aereo.
Fu allora che, terrorizzata e al tempo stesso irritata nel vederlo ancora immerso nel sonno, cominciai a strattonarlo, per comunicargli la notizia, nella speranza di riceverne conforto e appoggio.
“Ha sentito?”,  gli chiesi quando, destatosi da un sonno pesantissimo, tentò di mettermi a fuoco.
“Cosa?”, rispose infastidito, senza nemmeno darsi troppo la briga di nasconderlo.
“Pare che atterreremo senza carrello”,  risposi seccamente.
“Ah!”, si limitò a replicare lui.
Poi, come se solo in quel momento avesse realizzato il senso della mia frase, aggiunse:
“In che senso scusi?”
“In quale altro modo posso dirglielo? Il comandante ci ha comunicato, mentre lei dormiva alla grossa, che il carrello è inceppato e che quindi sarà costretto a un atterraggio di fortuna.”
“È gente super addestrata, vedrà che ce la caviamo con un po’ di spavento e qualche scossone”, rispose lui.
È con questa frase che mi ha steso.
Era impossibile che non fosse preoccupato, come lo erano tutti in quell’aereo (pilota compreso ovviamente). Ma controllava a tal punto la tensione che non potei che sentirmene rassicurata e protetta.
“Le dispiace tenermi la mano?”, fu tutto quello che riuscii a dirgli fino all’atterraggio che si verificò senza particolari danni una cinquantina di minuti dopo (il comandante ci aveva preannunciato che avrebbe fatto a lungo sorvolato Venezia al fine di arrivare a destinazione quasi scarico di carburante ed attenuare così i rischi legati al previsto impatto della fusoliera sulla pista) .
Così tenni per quasi un’ora la mia mano sinistra nella sua mano destra.
Quale legame può iniziare in maniera più intima e al tempo stesso traumatica di questa?
Sentivo che era teso, ma che si era imposto con tutta la sua forza di volontà di non darlo a vedere.
Intorno c’era gente che piangeva e pregava.
Davanti a noi una coppia di coniugi dava in escandescenze.
“Facevo bene a non darti retta, potevamo prendere il treno, tutte le volte che non lo faccio poi me ne pento”, diceva lui.
“Anche in un momento come questo trovi il modo per darmi addosso…”, rispondeva lei.
Insomma una bolgia.
In mezzo a questa bolgia la sua mano grande e asciutta teneva stretta la mia, come se invece che nel mezzo di un rischioso atterraggio, fossimo al centro di una dinamica di corteggiamento amoroso.
Restavo aggrappata a quella mano un po’ perché non potevo farne a meno (abbandonarla avrebbe voluto dire lasciarsi andarei senza ritegno al panico) un po’ perché, come lui ama dire di me, non so resistere a lungo senza entrare in contatto fisico con chi mi sta vicino ( il più delle volte in maniera del tutto innocente, anche se c’è chi equivoca).
Quando l’aereo ebbe finito di trascinarsi sulla pista (clangore di lamiere e scintille per un tempo che mi parve interminabile, automezzi di vigili del fuoco pronti alla bisogna, urla di terrore che si trasformano in preghiere di ringraziamento) lasciai la grande mano ossuta, rimasta nel frattempo sempre asciutta, e mi girai verso di lui.
Lo guardai dritto negli occhi e gli dissi semplicemente: “Grazie.”

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