Letteratura
Un rapporto febbrile con la realtà
Prose e racconti di Sandro Penna che hanno affiancato la sua produzione in versi, ripubblicati in diverse edizioni a partire dal 1973
Colgo l’occasione dell’opportuna e nuovissima pubblicazione mondadoriana in edizione economica delle Poesie di Sandro Penna (Perugia 1906- Roma 1977) per proporre una rilettura delle sue prose uscite nel 2019 con il titolo di Un po’ di febbre. Entrambi i volumi sono risultati da una ponderata scelta dello stesso autore, che così commentava l’antologia poetica del 1973: “Queste sono le poesie che al di fuori di qualsiasi critico io stimo più di tutte. Sarebbero insomma quello che io lascerei ai posteri se posteri esisteranno”. I posteri, che continuano ad amare i suoi versi (e come non amarli?) per fortuna esistono e resistono. Un po’ di febbre raccoglie racconti e pagine di diario, scritti dal 1939 al 1941, in cui si ritrovano i temi tipici di tutta la produzione penniana: l’esaltazione della corporeità, lo stupore per qualsiasi bellezza fisica e naturale, la delicatezza dei sentimenti, la luminosità del paesaggio e l’icona del fanciullo, puer aeternus, simbolo di un’infanzia da celebrare nella sua innocenza primitiva.
Giustificando la propria personale selezione, il poeta umbro così si era espresso: “Queste pagine attestano un rapporto febbrile con la realtà e con il mio lavoro di poeta e le ho sistemate, non secondo un ordine cronologico, poco rilevante, ma una progressiva chiarificazione; per il lettore ovviamente e non per me”. Chiarificazione non tanto stilistica, c’è da immaginare, dato la coerente e costante liricità della sua prosa, quanto sentimentale, accomunante il trasporto emotivo nei riguardi di ciò che a lui pareva degno di attenzione, sgomento, suggestione, meraviglia. “L’atteggiamento percettivo”, di cui parla Roberto Deidier nella sua appassionata introduzione al volume (con commosse parole di poeta che legge e interpreta un poeta), è del tutto evidente in questi racconti, nell’applicazione concentrata con cui l’autore osserva e segnala ciò che appare ai suoi cinque sensi: ogni movimento, espressione, suono, parola, profumo, contatto fisico. Anche quando non attuale e presente, ma rivissuto e riassaporato nella memoria, come viene ribadito nell’uso frequente dei verbi all’imperfetto: andavo/a, guardavo/a, parlavo/a…
Da “flâneur impenitente”, Sandro Penna cammina a lungo e ovunque, si sposta in tram, in corriera o in treno, scruta ed esplora, studia strade, spiagge, fiumi, campagne, osterie, si ferma a parlare con tutti, entra nei negozi e chiede informazioni, non si sottrae a qualsiasi fenomeno atmosferico, dal caldo asfissiante al piovasco leggero fino al diluvio più inclemente. Ma soprattutto appare sensibile alla luce, al chiarore del cielo, all’aria limpida e frizzante. Più di quaranta sono le reiterazioni del sostantivo luce, spesso accompagnato da aggettivi (turchina, fresca, tenera, estiva), oppure riferito agli sguardi e ai sorrisi: “una felice luce canzonatoria negli occhi vividi; gli occhi avevano sempre quella luce scintillante e infantile; la luce era nei denti e nelle labbra perfino”. Come non ricordare i quattro versi semplicissimi, pacati e straordinariamente felici di una sua poesia in cui il mare risplende di una pace serenamente raggiunta e illuminata? “Il mare è tutto azzurro. / Il mare è tutto calmo. / Nel cuore è quasi un urlo / di gioia. E tutto è calmo”.
Quest’ansia di luminosità, di leggerezza, di candore cercata e amata nell’aria intorno, è ovviamente simbolo e sintomo dell’aspirazione all’innocenza che Penna cercava di trovare sia nell’ambiente naturale, sia nei rapporti personali istintivi e meno costruiti, sia nella visione e frequentazione di adolescenti non ancora corrotti dalle abitudini e dalle imposizioni degli adulti. “Pensavo come evidenti siano le ragioni dell’amore che tutti portiamo ai giovani. Essi hanno la vita, che a noi tutti piace. E non hanno altro piacere che di scambiarla con la nostra povera noia. Vendono una merce preziosa e sovrabbondante, e non hanno bisogno di essere pagati. Di nessuna moneta hanno essi bisogno. Non hanno nulla da comperare”. Un inno alla vita in tutte le sue manifestazioni, talvolta anche le più torbide, ma rese meno brutali dalla profondità del sentirsi parte di un’esistenza condivisa nel bene e nel male del mondo: “Eppure la vita, ogni giorno, fosse sotto un ardente sole, fosse sotto una pioggia autunnale, ci dà, vuol dare ad ogni costo una smentita alla nostra stupida noia, un fresco bacio ora sulla casta fronte, ora sulla fervida bocca”.
Ne abbiamo testimonianza in molti racconti in cui il poeta avvicina dei ragazzi, sentendosi appagato dal solo guardarli, e non restando mai avvilito o contrastato dalla loro totale indifferenza. Spesso è un desiderio fisico, il suo, che sfiora i corpi, turbato, ma non si impone e non si impossessa. Lo sguardo che posa su questi adolescenti è ansioso, stupito, emozionato, a partire dal testo iniziale, in cui il cuginetto Quintilio (“esile e dritto… calmo e lucente”) lo saluta scontrosamente da lontano; così il bruno bigliettaio del vaporetto di Venezia, e ancora il contadinello grossolano osservato in biblioteca, il neghittoso garzone di un bar, l’apprendista del barbiere, i giovincelli seduti al cinema, i marinai che fanno a botte per scherzo e ridono di lui. In questo modo li descrive: “Il ragazzo si volse appena, e allungandosi di più sulla poltrona tirò dalla sigaretta una boccata più languida che mai. I suoi capelli erano proprio quelli dei giovinetti delle statue antiche, e tutto il resto era forse lo stesso con in più il fuoco di quegli occhi e di quella sigaretta nel crepuscolo romano”, “si vedrà quel suo sorriso, quel suo ripiegare la testa dolcemente e malinconicamente e subito dopo, ma subito subito, esplodere in risate aggressive dolcemente, come una grandine primaverile”, “Niente di femminile. Niente di estranea durezza virile. Tutta infantilità. Ma tutta grazia così, come un gatto, un bimbo, inconscia”, “il fanciullo – che è una nuvoletta di riccioli neri coi soliti occhi da meraviglia e il solito colorito di cielo”, “Due ore e più sempre a camminare e durante le quali ho avuto la forza di non toccarlo, di non fare un ragionamento che la triste legge direbbe poi corruttore. Egli è un angelo e non voglio descriverlo … avevo paura della sua bellezza”.
Quando il poeta riconosce in se stesso il peccato, e confessa i suoi rapporti mercenari, allora maledice malinconicamente di non poter semplicemente amare, e di doversi accontentare di avventure fugaci, talvolta umilianti: “A me solo è negata la vera felicità… Per me la legge consente il vizio, non consente il puro amore”. Indifferente alla politica e ai mutamenti sociali, in anni turbinosi di scontri violenti, sangue, repressione, Sandro Penna viveva una classicità senza tempo, quasi mitologica, e le figure che tratteggia, gli episodi che racconta, sfumano in un ideale estetico di armonia e inviolabile purezza: “Fanciullo bello della bellezza delle mie più belle poesie. Tutto è in te delicato senza opulenze e la tua linea semplice e un po’ acerba è così poco amata dal volgo. Hai l’armonia della più grande e più semplice bellezza”.
SANDRO PENNA, UN PO’ DI FEBBRE – MONDADORI, 2019.
Introduzione di Roberto Deidier, pagine 128
SANDRO PENNA, POESIE – MONDADORI, MILANO 2025. Pagine 192
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