Letteratura

Un Tibet del cuore

Il viaggio dell’anima in un Tibet fantastico che il poeta francese Victor Segalen intraprese un secolo fa.

4 Agosto 2025

 

 

 

Il poemetto Thibet, da poco uscito da Smerilliana con testo francese a fronte, è stato composto da Victor Segalen tra il 1917 e il 1919, ma pubblicato solamente nel 1979 presso i tipi di Mercure de France, in un’edizione critica curata da Michael Taylor.

Personaggio complesso, versatile e affascinante, il medico-archeologo-etnologo-romanziere-critico d’arte e poeta Victor Segalen (Brest 1878-Huelgoat, Finistère, 1919), si era laureato in medicina marittima a Bordeaux con una tesi sulle nevrosi nella letteratura contemporanea. Nel corso degli studi si era avvicinato alla poesia simbolista, frequentando una vasta cerchia di intellettuali e scrittori coevi, tra cui Joris-Karl Huysmans. Imbarcatosi per Tahiti nel 1902 come medico di bordo, si stabilì nell’isola per due anni, interessandosi alla pittura di Gauguin, e in seguito viaggiò a lungo, visitando Giappone, Birmania, Algeria e Cina, dove risiedette per molto tempo con moglie e figli. Appassionato di ogni aspetto della cultura orientale, studiò i miti polinesiani, il buddhismo e il sanscrito. Morì in circostanze misteriose a quarantuno anni, e il suo corpo dissanguato venne ritrovato in un bosco accanto a una copia dell’Amleto. Les immémoriaux, Stèles e Peintures sono le sue opere più famose.

Notizie più approfondite sulla sua avventurosa esistenza si possono leggere nell’argomentata e dotta prefazione di Raffella Poldelmengo, che ha curato anche la traduzione di Thibet insieme a Emanuela Turri, mettendo in luce le difficoltà di resa in italiano del testo francese, scritto in una lingua sonoramente visionaria, insofferente di regole sintattiche e prosodiche, e in grado di giostrare ambiguamente tra metafore e metonimie, con il frequente utilizzo di termini crudamente erotici. Poco accessibile in prima lettura nel suo significato letterale e simbolico, può risultare addirittura ostico nella forma, estranea alla misura razionale della grammatica europea, e vicina invece al modo di comporre orientale, più distesamente libero. A livello lessicale e sintattico, il lettore si trova di fronte a continue inversioni di genere, di numero, di ruoli tra soggetto e oggetto, a neologismi e arcaismi; nel ritmo, nell’uso ribadito delle rime, nella punteggiatura incalzante, pare evidente l’intento del poeta di accompagnare con la prosodia il cammino cadenzato dello scalatore che si inerpica tra le montagne tibetane, “marciatore insolito e sovraffaticato”. Di tale difficoltà interpretativa fu ben consapevole Jorge Luis Borges, che in un’intervista ebbe a dire dell’autore: “I francesi non sanno che in Victor Segalen hanno uno dei più intelligenti scrittori del nostro tempo, forse il solo ad aver realizzato un’innovativa sintesi tra estetica e filosofia occidentale e orientale? Si può leggere Segalen in meno di un mese, ma occorre il resto della vita per iniziare a comprenderlo”.

Thibet è composto da 58 sequenze, ciascuna di 18 versi alternativamente lunghi e brevi, che creano sulla pagina una sorta di disegno richiamante i calligrammi della scrittura cinese tanto ammirata dal poeta. Racconta un viaggio di illuminazione interiore e di ascensione spirituale, concepito a Pechino ma scritto nell’ultimo periodo di vita del poeta, che aveva per anni idealizzato il paese asiatico subendo il fascino del territorio e della sua lingua conosciuti solo tramite le parole dell’amico Charles Goustave Toussaint. Il testo è articolato in tre tappe: TO-BOD, il luogo raggiunto, LHA-SSA, il paese dove si arriverà, e infine PO-YOUL, la terra non raggiungibile.  Questo “poema esaltante” riflette l’ammirato stupore dell’artista verso la purezza della natura percepita attraverso l’esaltazione del pensiero, una mappa geografica che non ha nulla di concreto, ma personifica terra e cielo in una creazione dello spirito: “Thibet, d’un balzo tu mi sei apparso, – mutato il mondo, – vergine immensa / Al di là dei monti del mio desiderio”. Le vette irraggiungibili, i misteriosi silenzi, le acque rispecchianti la luce del sole, il canto sottile sussurrato dalle rocce si animano nei versi trasformando l’oggetto della poesia in un soggetto capace di autocrearsi: “Ma tu, Thibet, tu ti sei plasmato, innalzato sulla parte più forte di te stesso, /Eroe che atterra e che commuove: / Non vasaio ma poeta; e non artigiano ma poema / Non dal fuori ma dal dentro; / Dio statuario e dio che è sorto, forbice fuoco e roccia ardente”. Di questo paesaggio divinizzato, assolutizzato, Segalen si fa sciamano ed evocatore, interprete celebrante, investito di una missione rivelatrice e da rivelare: “Trattengo a due [mani] le mie ricchezze: i tuoi metalli e le tue pietre… i tuoi monti e laghi e rocce… // … La sequenza delle mie preziose parole, / La successione incastonata delle mie pietre, la caduta dei miei cristalli tintinnanti / E che, non spaventato dalla mia opera, / Piccolo, in basso, ma non cancellato, né troppo umiliato / Il mio nome come un conio sia nuovamente decifrato!” Lui, “mendicante dell’infinito” è uno dei tre protagonisti del poema, che si accompagna alla raffigurazione paesaggistica di un Thibet “inumano” in quanto aldilà dell’umano, e alla presenza-assenza di una Lei indecifrabile e arcana, divinità in continua camaleontica apparizione (“Lei è estrema, mio demone…// mia multiforme compagna”; “solitaria, penetrante e nuda”). Lei, l’Autre, che in francese definisce sia il maschile sia il femminile, è amante, dea e demone, vergine e vampira, incorporea eppure carnale, “concubina nello spirito e complice nella cosa”, sembianza universale del femminile che contemporaneamente salva e condanna, innalza e umilia.

Il poeta non si sottrae al fascino della terra e della donna, lo affronta vigorosamente, nella baldanza di un cammino che percorre i sentieri e si eleva tra le cime, tra fisicità e sublimazione, consapevole della forza dell’inno di gloria che sta componendo, e che lo renderà celebre agli occhi dell’umanità. Nella sua ascesi non fa spazio allo svuotamento interiore cui si appellano i mistici occidentali, ma rimane vigile e pronto a inverarsi proprio nella realtà della bellezza che lo circonda, come benissimo esplicita Raffaella Poldelmengo: “Un’ascesi tutta terrestre che, mentre va, annota i balenii di tutto ciò che si muove sulla superficie di Thibet, questo dio statuario e sempre nascente: le feste, le processioni, gli yak intrappolati nel ghiaccio, le fanciulle che appaiono e subito scompaiono simili a comete, i ponti aerei da superare, la fatica e la stanchezza conseguente, meravigliose compagne delle soste, l’ebbrezza del vino, le valli immacolate e inaccessibili dove fioriscono piante rarissime: insomma tutta una serie di epifanie in cui si sfrangia il Thibet”.

È proprio il Thibet, anche nella sua incarnazione muliebre, che si divinizza nei versi del poeta, e permane inconoscibile nella sua segreta sublimità, reso manifesto solo dal prodigio della parola poetica: “Io ti ho fatto, scoraggiato Pellegrino, l’Altitudine, il Simbolo, – il Dio”, “Possa io, io – nella tua grandezza scandire a colpi di reni / Questo inno in movimento, questo indomito dono, / Tributo che con slancio si inerpica a Te, il più alto dei paesi! / – Mio cuore, che pulsi in te ogni parola”. Orgogliosamente certo della sua funzione di vate del bello, Segalen demanda ai suoi versi il compito di auto-rivelarsi, di spiegarsi nel dispiegarsi canoro, chiamando anche il lettore a una complicità interpretativa: “Dov’è il suolo, dov’è il sito, dov’è il luogo, – il centro, Dov’è il paese promesso all’uomo? / Il viaggiatore viaggia e va… il veggente lo tiene sotto i propri occhi…”.  Il veggente è diverso dagli altri viaggiatori, desiderosi di impossessarsi con spirito predone dell’anima tibetana: missionari gesuiti, conquistatori avidi di ricchezze, trafficanti e mercanti, disprezzati dalla stessa nobile Terra: “Le tue Potenze ridevano sopra le loro teste”. Se il cammino intrapreso tra cuore e mente non ha portato il poeta alla conquista della cima, irraggiungibile e intoccabile, ha ottenuto però di lasciare in eredità al mondo dei viventi la preziosità di un canto che rimarrà eterno: “– Se c’è qui un uomo, un solo uomo per scalare e lodare te, / Malgrado la spaventosa debolezza. / Fa’ allora, – o Thibet paziente, Thibet che subí le troppo numerose avanie / Che si ricordi questo canto, / Questo poema, da te solo e per te generato nelle sue sequenze, /Questo grido ritmato dalla tua potenza”.

Sia Raffaella Poldelmengo nella prefazione sia Mauro Francesco Minervino nella postfazione mettono in luce quale sia il merito culturale, oltre che letterario, del lavoro di Victor Segalen. Senz’altro l’aver acquisito, proposto e sottolineato, più di un secolo fa, una nuova accezione dell’ignoto, della differenza, di un mondo totalmente “altro” rispetto a quello occidentale, assetato di dominio economico e smanioso di progresso tecnologico, colonialista e bellicoso. Victor Segalen, osteggiato e tacciato di esotismo antieuropeo da scrittori come Paul Claudel, Saint John-Perse, Tzvetan Todorov, fu senz’altro uno spirito eccentrico, antimoderno, ribelle, ma del tutto privo di pregiudizi verso la diversità. Aveva trovato nell’incanto dell’Oriente l’origine favolosa della libertà dello spirito, la luce di una verità che, pur essendo basata su solide conoscenze antropologiche e etnografiche, viene resa più ricca e lungimirante dallo sguardo della poesia: “Io accetto di salire lassù a patto che nei Tempi delle risate beffarde / Si dica che la mia caduta fu bella”.

 

VICTOR SEGALEN, THIBET – SMERILLIANA, VENEZIA 2025, pagine 176

Testo originale francese a fronte. A cura di Raffaella Poldelmengo.

Traduzione di R. Poldelmengo con la collaborazione di Emanuela Turri

Intervento conclusivo di Mauro Francesco Minervino

 

 

 

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