Musica

1985- Speciale Estate 1 – L’Ultimo Grande Respiro Collettivo

Del perché il 1985 è statol’anno più importante della storia della musica popolare del XX° secolo

29 Giugno 2025

Premessa: Nelle prossime settimane questa rubrica cambia pelle, diventando un racconto estivo, tipico dei settimanali di una volta. Questo racconto parla di musica, in particolare dell’anno più importante per la musica popolare mondiale, il 1985. Mi rendo conto che con questa affermazione apodittica mi attirerò le critiche di molti, dato che ogni generazione ha avuto il suo anno preferito, ma quarant’anni fa si raggiunse lo zenith di quello che era stata la musica popolare dal secondo dopoguerra in poi. Da quel momento, tutto cambiò e spero che questo racconto vi aiuti ad assaporare le sensazioni di chi lo ha vissuto da adolescente periferico, immerso in una tempesta sonora da cui si riprese con difficoltà e che ancora ricorda con nostalgia. Il racconto si svilupperà in capitoli e playlist finali, per fornire, dati alla mano, la dimensione del fenomeno che vogliamo raccontare.

 

Il 1985 rappresenta una convergenza irripetibile: tecnologia analogica e digitale si fusero mentre MTV plasmava l’immaginario globale. Fu l’ultimo anno in cui il rock tradizionale, il synth-pop e le nuove sperimentazioni condivisero le stesse vette delle classifiche senza fratture generazionali. Un equilibrio che si spezzerà di lì a poco con l’esplosione dell’hip-hop e la frammentazione dei generi, creando barriere invalicabili tra chi ascoltava una cosa e chi un’altra. In questo racconto a puntate non ci limiteremo a celebrare solo la qualità della produzione musicale di quell’anno, ma quello che riteniamo il vero e proprio apogeo di un ecosistema sonoro unitario. Da contemporanei, ovviamente, nessuno colse che quello sarebbe stato l’ultimo anno perfetto. A leggere le critiche sulle riviste di settore, anzi, tutto era un casino. La musica era troppo “plasticosa”, piena di batterie elettroniche e sintetizzatori, il rock era patinato e cotonato (oltre che eccessivamente biondo cenere) e c’erano troppi sex symbols tra i musicisti, specchio di un’era di immagine ossessiva. Un tizio che poi avrà fortuna nei decenni successivi come gossipparo (di potere) online inventava in quell’anno, grazie ad una fortuna trasmissione televisiva in seconda serata, la catch phrase dell’Edonismo Reaganiano. E tutti a ruota ne abusarono, approfittando della inesausta riproduzione di queste due parole per mettere in macchietta quella che in realtà fu l’ultima stagione della musica di tutti e per tutti. Di lì a poco, tutto si settorializzò, frammentando gli ascolti e anche i record di vendite dei supporti musicali.

Il 1985, in sostanza, non fu un semplice anno nel calendario musicale. Fu un “crogiolo alchemico” in cui tecnologia, geopolitica e genio artistico si fusero in una sinergia irripetibile, plasmando non solo le classifiche ma la stessa identità della cultura popolare globale. Questo racconto nasce da una tesi radicale: che il 1985 rappresenti l’ultimo grande respiro collettivo della musica prima della frammentazione digitale, un momento in cui il rock e il pop erano ancora un linguaggio universale capace di unire generazioni, culture e continenti.

Mentre la Guerra Fredda raggiungeva nuovi picchi di tensione, grazie alle Space Wars di Ronald Reagan, paradossalmente la musica divenne un ponte insospettabile. A gennaio, dopo l’evento britannico di “Do they know it’s Xmas?, “We Are the World” riunì 46 star americane – da Michael Jackson a Bruce Springsteen – in una notte di registrazione clandestina a Hollywood, trasformando un atto di beneficenza per l’Etiopia in un inno planetario che vendette 8 milioni di copie solo negli USA. Pochi mesi dopo, il 13 luglio, il Live Aid riempì gli stadi di Londra e Philadelphia, trasmesso in diretta in 150 nazioni. Quasi 2 miliardi di persone ascoltarono lo stesso riff di “Money for Nothing” dei Dire Straits e batterono le mani all’unisono durante “Radio Ga Ga” dei Queen, mentre Freddie Mercury sfidava i ritardi satellitari con un microfono senza fili. Fu la prova che la musica poteva essere un collante sociale in un mondo diviso dai blocchi ideologici.

Il 1985 fu anche l’anno del vinile morente e del CD nascente. Io personalmente acquistai i miei primi due cd (Boys & Girls di Bryan Ferry e Who’s Zoomin’ Who di Aretha Franklin) che ascoltavo in un lettore cd portatile Philips collegato allo stereo Pioneer che giganteggiava nello studio di mio padre. Da parte loro, i Dire Straits, con Brothers in Arms, crearono il primo album concepito interamente in digitale (DDD), sfruttando la dinamica superiore del compact disc. Il disco divenne un killer app per il formato, vendendo più copie su CD che su vinile e trainando le vendite dei lettori cd, i cui primi modelli da casa erano particolarmente costosi ai tempi. Eppure, proprio quell’anno, Bruce Springsteen vendette 15 milioni di copie di Born in the U.S.A. (uscito l’anno prima, ma esploso nell’inverno 84/85) su vinile, dimostrando che l’analogico non era pronto a cedere il passo. Fu questa tensione tecnologica a generare un suono unico: il gated reverb delle batterie di Phil Collins, i synth Roland dei Tears for Fears, il Fairlight CMI di Kate Bush in “Running Up That Hill”, dove campionò il battito cardiaco del suo levriero.

Mai come nel 1985 le radio furono un parlamento sonoro inclusivo. Non c’erano le radio nostalgia o quelle legate ad un singolo stile sonoro (come capita oggi nelle onde digitalizzate). In un’unica playlist potevi ascoltare il folk-punk irlandese dei Pogues, il metal dei Metallica, il blue-eyed soul di Sade e il synth-pop norvegese degli A-ha.

MTV, con la sua programmazione 24 ore su 24, era il nuovo sacerdote di questa diversità: il video di “Take on Me”, realizzato con 3.000 fotogrammi dipinti a mano, rese gli A-ha fenomeni globali, mentre “Sledgehammer” di Peter Gabriel rivoluzionò l’animazione in stop-motion.

In più, ogni nota del 1985 sembrava carica di un mandato etico. Non solo “Live Aid”: “Sun City”, progetto di Steven Van Zandt, riunì 49 artisti—da Miles Davis a Lou Reed—per boicottare l’apartheid sudafricano. Persino il Senato USA dovette confrontarsi con la musica: Frank Zappa e Dee Snider dei Twisted Sister testimoniarono contro la censura del PMRC, difendendo il diritto alla libertà espressiva, contro le preoccupazioni delle mamme anti-rock guidate dalla moglie del futuro vicepresidente Al Gore.

Insomma, perché questa ossessione per il 1985? Perché il 1985 non fu solo un anno di grandi successi: fu l’anno in cui la musica salvò il mondo, o almeno, ci provò.

 

Playlist

1. USA for Africa – “We Are the World” (L’inno planetario della solidarietà)

2. Dire Straits – “Money for Nothing” (La rivoluzione digitale in un riff)

3. Queen – “Radio Ga Ga” (Live Aid, il trionfo dell’unità)

4. Bruce Springsteen – “Born in the U.S.A.” (Il working-class hero nell’era Reagan)

5. A-ha – “Take on Me” (Il futuro del pop in un video dipinto a mano)

6. Sade – “Smooth Operator” (L’eleganza del jazz-soul nell’era synth)

7.  Prince – “Raspberry Beret” (Il genio che rifiutò il mainstream per cambiarlo)

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