Musica

A latere del vero – se c’è

Luca Ciammarughi, pianista e compositore, illustra e interpreta gli aforismi musicali di Satie e dei suoi precedenti e contemporanei

25 Giugno 2025
Eric Satie, tra Ottocento e Novecento, è una sorta di jolly che scombina le carte del gioco. Volessimo fare un confronto, il suo posto sta tra Toulouse-Lautrec e Cézanne. Il periodo è chiamato anche Belle Epoque, bella epoca, evocando un festa di gioia e di spensieratezza. Niente di più fuorviante. L’epoca si apre e si chiude con due terribili guerre, la guerra franco-prussiana e la Grande Guerra, c’è all’inizio un massacro sociale, la repressione della Comune di Parigi, e alla fine la preparazione e il trionfo dei fascismi in Italia e in Germania, ma con echi anche in Francia e in Gran Bretagna. Nelle arti cadono i principi unitari di riferimento: il sistema tonale in musica, la prospettiva e la definizione delle figure in pittura, la crisi e la mutazione dei generi in letteratura, in architettura l’avvento dell’architettura di massa, i grandi edifici comuni, sia della politica sia delle abitazioni. Si ricordano i grandi innovatori: Picasso, Schoenberg, Joyce, Loos.  Il 18 maggio 1917 al Théâtre du Châtelet di Parigi va in scena il balletto Parade, la musica è di Satie, il soggetto è di Cocteau, le scene sono disegnate da Picasso, la coreografia è di Massine e il corpo di ballo è la compagnia dei Balletti russi diretti da Djagilev, il programma di sala fu scritto da Apollinaire. Parigi era allora la capitale del mondo, ma così anche la capitale che derideva questo mondo che nato da poco già stava finendo. E si era ancora in piena guerra: sarebbe, anche questa, finita l’anno seguente. Il nume musicale del momento è Debussy. Ma l’ironia di Satie già alimentava un gruppo di musicisti che avrebbe percorso altre strade: il cosiddetto gruppo dei sei, Darius Milhaud, Arthur Honegger, Francis Poulenc, George Auric, Louis Durey, Germaine Tailleferre.
Quasi in una lezione concerto Luca Ciammarughi ha voluto presentarci il personaggio e la musica di Satie, nella Sala Casella dell’Accademia Filarmonica Romana, per un ciclo di concerti, dal 19 giugno al 10 luglio, che s’intitola Il canto delle culture. E di fatti, dopo Ciammarughi, nella stessa serata, il 24 giugno, si sono ascoltati Daria Rossi Poisa al violocello, Mayrizio Ziomi al flauto, Gabriela Galì a quel suggestivo e insieme misterioso strumento che è una fisarmonica finita come voce inconfondibile e irrinunciabile del tango argentino, fisarmonica nata come tedesco bandonion e finita come argentino bandoneón, proporci a confronto le musiche di Astor Piazzolla e di Ennio Morricone.
Il discorso al riguardo sarebbe lungo. Ma si può comunque, anche da un così breve ascolto e tutt’altro che significativo, anzi piuttosto scialbo, che non ha offerto delle musiche una vera e differente caratterizzazione, ricavarne l’impressione che alla genialità inventiva di Piazzolla Morricone corrisponda con un mestiere abilissimo, consapevole delle strade della nuova musica, ma che preferisce restare nei comodi limiti della piacevolezza e dell’orecchiabilità, senza sfidare troppo l’ascoltatore. Il che gli ha decretato un giusto successo di pubblico, ma si desidera invano quell’originalità di scrittura che caratterizza le musiche cinematografiche, per esempio, di un Nino Rota. Satie l’avrebbe definita musica di mobilio. Ma senza l’ironia, la derisione, che possiede una musica ugualmente gradevole ma scritta appunto per ironizzare e deridere. Si sono ascoltate, dalle dita di Luca Ciammarughi, sapientemente esibite – è il caso di dirlo – le Gonossiennes 1,3 e 4: già il nome è sviante, Knosso, l’antica civiltà minoica, o la Gnosi? Nei romanzi del tempo, non escluso nemmeno Thomas Mann, si legge di sedute spiritiche. L’esoterismo era di moda. C’è stata offerta poi la prima Gymnopédie: santi numi! ragazzi nudi! amore greco, forse? Satie non lo dice, ma ci giocava anche Debussy con le Chansons de Bilitis. Per non parlare di D’Annunzio e il suo decadente ellenismo, anche nei personaggi di oggi. Che andrebbero riletti: la società attuale di fatti è anch’essa una società di superficie, di immagini preziose, d’invenzioni “artificiali”. D’Annunzio sarà pure “decadente”: ma c’è già dentro una critica tutt’altro che tenera proprio delle idee più diffuse del decadentismo. La sua Città morta, in cui è riletto il mito degli Atridi, non è poi così lontana dalle Mouches di Sartre o dal Lutto si addice ad Elettra di O’Neill. E la stessa via percorre La fiaccola sotto il moggio. A questi sprizzi di derisione che svelano i trucchi della modernità, Ciammarughi ha accostato In a Landscape di John Cage, colui che sotto la superficie dei suoni ha fatto intravedere il vuoto del silenzio. O altrove, invece, come in 4.33, addirittura l’impossibilità del silenzio, perché tra il pubblico c’è sempre qualcuno che tossisce, che s’addormenta russando, che protesta buhando. Ma – e chi lo direbbe? – Satie non è il primo a mettersi a latere del fatto, di fianco all’opera, di traverso. Nel secolo dei lumi, il Settecento, la razionalissima Francia indaga come poche altre culture l’abisso dell’irrazionale, l’invadenza dell’irrisolto, la prepotenza dell’equivoco. Diderot scrive che se la tragedia è il palcoscenico della Passione, la commedia lo è della Ragione. Ma può accadere che Ragione e Passione si confondano. Nella sublime Bérénice Racine indaga come pochi i meccanismi dell’amore, quando finisce. Tito non ama più Berenice, ma maschera il suo disamoramento, anche a sé stesso, come obbligo della Ragion di Stato, che a Roma vieta il potere a un re, e dunque anche a una Regina, com’è Berenice, regina di Bitinia. Fantastico pretesto per abbandonare una ex-amata senza sentirsi in colpa. Anzi facendola sentire a lei, la colpa dell’abbandono.
Ecco i versi, da me tradotti, con cui Berenice si congeda da Tito:
Non ascolto più niente, e ormai per sempre, addio.
Per sempre! Ah mio Signore, ma riuscite a capire
come questa parola crudele è orribile se si ama?
E tra un mese, tra un anno come noi sopporteremo,
Signore, che così tanti mari mi separino da voi?
Che il giorno ricominci e che il giorno finisca
senza che possa mai Tito vedere Berenice,
senza che tutto il giorno possa io vedere Tito?
Ma che sbaglio è il mio, e che perduto affanno!
L’ingrato della mia partenza già consolato,
si degnerà di contare i giorni della mia assenza?
Quei giorni per me così lunghi gli sembreranno troppo corti.
Io non vedo qui niente da cui non sia ferita.
Tutti questi apparati preparati dalla vostra attenzione,
questi luoghi, del mio amore per così a lungo testimoni,
da sembrare per sempre rispondermi del vostro,
questi festoni, dove i nostri nomi l’uno all’altro allacciati
al miei tristi sguardi mi si offrono dovunque,
sono altrettanti impostori che non posso soffrire.
Ecco, immaginate questo lamento detto da una gallina. E avrete La Poule, la gallina, di Jean-Philippe Rameau. Ma naturalmente sfocato, distorto, dal verso del pennuto. Rameau, del resto, scrive una commedia musicale sull’amore deriso di una ninfa delle paludi, Platea, con il re degli dei, Giove. Platée, appunto. L’infima e il sommo. C’è poi Rossini, che tra i suoi peccati di vecchiaia descrive le avventure di un treno: Un petit train de plaisir, Il treno, macchina infernale dal fischio diabolico, deraglia con una sequenza irregolare di settime diminuite – quasi peggio delle quinte parallele! – ci sono feriti, il primo morto in paradiso con arpeggi ascendenti e il primo morto all’inferno con arpeggi discendenti, c’è il lamento degli “eredi”, un gioioso valzerino.
Ma dietro la beffa, dietro la derisione, c’è un pensiero assai serio. Che l’arte, nel Novecento, ha perso la bussola, le cose non sono più dette con chiarezza, le parole non dicono ciò che hanno detto nei secoli precedenti. Rossini scrive più arie su un testo di Metastasio: Mi lagnerò tacendo:
Mi lagnerò tacendo
della mia sorte amara,
Ma ch’io non t’ami, o cara,
Non lo sperar da me.
Le parole restano le stesse, ma c’è l’aria buffa, l’aria tragica, l’aria sentimentale, l’aria spagnoleggiante, e così via. La musica è insensibile al significato delle parole, Monteverdi con il suo recitar cantando, anzi, come preferiva dire, parlar cantando, è servito. Anzi, la musica è incapace di esprimere i sentimenti, scrive Rossini in una lettera, crea solo l’atmosfera in cui cadono le parole. Sembra uno slogan d’avanguardia. Sono parole – dette a latere, seriamente, ma non seriosamente – di Rossini. In realtà Rossini ci sta dicendo che è la musica a dare senso alle parole, così come una recitazione può cambiare il senso di un testo, farne un testo tragico o comico, serio o leggero. Crea, appunto l’atmosfera in cui le aprole acquistano il vero significato. La musica non imita la natura: è solo suono. Al massimo può sondare come riprodurre le onomatopee. Un paradosso? Può darsi. Ma lo sono anche le parole di Satie. E la musica di cui sono l’applicazione. La realtà è talmente intricata, inafferrabile, che solo il paradosso può coglierla.
Tutta la serata proposta da Ciammarughi camminava su questo binario che può portare da una parte ma anche dalla parte opposta. Il novecento è il secolo del molteplice, dell’inafferrabile. Al pubblico plaudente Ciammarughi ha concesso il regalo di uno spiritosissimo bis. Una propria composizione per un cartone animato. Veniva voglia di vederlo, il film. Segno che la musica ne aveva colto il senso.
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