Musica
Il canto del caos
Un concerto che spazia da Brahms a Mahler e da Mahler parte per un’indagine sulla musica di oggi.
Del Quartetto Werther (Misia Jannoni Sebastianini, violino; Nartina Santarone, viola; Vladimir Bogdanovic, violoncello; e Antonino Fiumara, pianoforte) ho scritto su Alias del “Manifesto” il 9 novembre scorso, a proposito dell’uscita di una loro splendida incisione per l’etichetta Genuin, dal significativo titolo goethiano, come il nome del complesso, Elective Affinities, in cui sono offerti all’ascolto un quartetto giovanile i Mendelssohn e il Quartetto in do minore per pianoforte op. 60 di Brahms. Proprio questo quartetto brahmsiano è stato riproposto dai quattro bravissimi giovani musicisti nel concerto di giovedì 4 dicembre scorso al Teatro Argentina di Roma per la stagione concertistica dell’Accademia Filarmonica Romana. “Immagina un uomo cui non resta altra scelta che spararsi” scrisse Brahms di questo quartetto. E un colpo di pistola, come quello che Werther si spara alle tempie, dà l’avvio al suo tormentato percorso musicale: la tonica do battuta dal pianoforte nello spazio di quattro ottave. Ma il quartetto brahmsiano è stato preceduto dal Movimento di quartetto in la minore di un Mahler sedicenne, che però costituisce anche il punto di partenza per un visionario “completamento” che Alfred Schnittke compone centodieci anni dopo, partendo dalle 27 battute lasciate da Mahler come appunto per uno scherzo mai proseguito. Al ripensamento del compositore russo, l’italiano Francesco Antonioni, quasi a sfidare i destini della musica oggi, compone quest’anno un brano che anche nel titolo rimedita il pensiero musicale di Mahler, Movimento di quartetto. Se Schinttke sembra arrendersi all’evidenza del caos moderno, trentasette anni dopo Antonioni, quasi come il fisico italiano, premio Nobel, Giorgio Parisi, che ha indagato le regole del caos, cerca d’indovinare il filo che lo tiene unito e compatto.
Cominciamo con il riflettere proprio sul nuovo pezzo di Antonioni, e di lì, a ritroso, andiamo a ripercorrere il filo che ci conduce nel labirinto musicale del Novecento, e ancora prima, dell’ultimo Ottocento, a Mahler, a Brahms. Intanto, il compositore teramano non occulta l’origine della sua riflessione musicale, il torso mahleriano sta là, percepibile, anche se distanziato, sovrimpresso, dilatato, contratto, esasperato, disteso, in una parola trasformato dalla scrittura odierna, che non ha più un modello di percorso armonico, ma dell’armonia fa la materia sulla quale ritrovare un bandolo orientativo. Piano, però, a parlare di riappropriazione di una linea discorsiva percepibile, di restaurazione di modelli “naturali” ristabiliti. Il caos, già prefigurato da Mahler, e definitivamente riconosciuto da Schnittke, c’è ancora. Ma invece di restarne spaventati, se ne cerca appunto il bandolo, come Parisi nel volo degli storni. Ora, quando nel processo di una cultura si arriva a qualcosa che assomiglia alla sua dissoluzione, invece di strapparsi i capelli e disperarsi, è operazione più proficua chiedersi e indagare come ci si sia arrivati, in altre parole rimeditare la storia che ci ha preceduti. Una tabula rasa del passato, come sembravano pretendere certe avanguardie radicali del novecento, è impossibile: si si rade qualcosa, quel qualcosa resta nell’oggetto raso. Una musica atonale non abolisce radicalmente la tonalità – e su questo Schoenberg aveva perfettamente ragione quando esprimeva insofferenza per l’espressione “atonale”, in quanto, a suo dire, una musica atonale non può esserci, non esiste – ma si presenta come l’antitesi, l’opposizione, l’altra via, della musica tonale, e dunque, sempre, in relazione ad essa. Un po’ come l’informale in pittura è solo un manifesto, perché una pittura, qualunque essa sia, una forma ce l’avrà comunque. Allora il punto – com’era già chiaro a Schoenberg, e bisognerebbe tornare a riflettere su questo – non è più tanto negare l’ordine precedente, ma cercare quale sia il nuovo che ne deriva e lo sostituisce, e se comprenda in qualche modo ciò che lo precedeva o lo estrometta. Insomma, in due parole: che una certa tradizione sembri concludersi, significa che si esaurisca e si debbano pertanto inventare nuove regole o dal suo interno si possono e si devono estrarre, sviluppare le nuove regole con cui procedere? o, infine, è addirittura possibile sia uno sviluppo delle regole tradizionali che conduca a nuove regole sia l’invenzione di nuovi parametri, e in definitiva la coesistenza, la simultaneità di entrambi i procedimenti? Posso ancora, in poesia, scrivere endecasillabi che non siano più nemmeno l’endecasillabo di Montale? è il verso libero, quanto, libero, come una prosa con da capo artificiali, o un verso che ubbidisca a nuove condizioni metriche? L’inglese e il tedesco, per esempio, lingue che in qualche modo hanno conservato una certa percezione della quantità, agiscono proprio in questo modo, al punto che il verso libero inglese potrà sembrare a chi conosca la metrica classica, una rivisitazione della metrica arcaica greca. Il brano di Antonioni, comunque, fa un effetto esplosivo. Sembra di stare sospesi su un abisso – come Baudelaire diceva della musica di Chopin – nel cui fondo si agitano tumultuosamente spezzoni di passato e di presente. Una moviola impazzita che fa girare vorticosamente la pellicola. E fatto non secondario per una musica di oggi, l’effetto arriva all’ascoltatore, che magari anche non capendo bene che cosa stia accadendo se ne sente preso e applaude. Il parametro percettivo sembra spostarsi dall’intervallo al ritmo. Non nel senso che l’intervallo non conti più niente, ma in quello, assai più radicale, che a condurre il discorso è il ritmo, anzi, addirittura il suo passo, se lento o accelerato. Schnittke, si è detto, si limitava a registrare l’avvento del caos. Ma cercandovi dentro, anche lui, una logica. Il caos, del resto, sembra un riferimento costante della musica russa del Novecento. Non ci si lasci ingannare dall’impianto tonale di molta di questa musica, se non quasi tutta. Ma un quartetto di Šostakovč può risultare caotico quanto un Klavierstück di Stockhausen, e in entrambi, comunque, perfetta la costruzione formale. E Mahler? Il Movimento di Quartetto è del 1876. Mahler ha 16 anni, sta studiando composizione. Il suo modello è Brahms. Anzi proprio il Quartetto op. 60. Le idee sono molte, e di vario andamento. Ma già si nota un controllo capillare della costruzione, nella volontà di dare un senso unitario alle varie idee, magari organizzandole tutte su un unico intervallo comune. Come fa Brahms. Ma poi finisce per estrinsecare una cantabilità da Lied, da canzone. Il quartetto sembra un appunto per i successivi Lieder, il Corno magico, Canti di un compagno viaggiatore. L’architettura è solida. Ma sono i singoli interventi che sembrano scappare dalla cornice. Il caos della Settima Sinfonia è ancora lontano. Ma è presentito.
Veniamo così a Brahms. Come per l’incisione discografica, anche il concerto della Filarmonica ruota in fondo intorno a questo quartetto – e vedremo, anche i bis – che, del resto, occupa un posto di rilievo nella produzione brahmsiana, il che significa anche nella storia della musica europea degli ultimi tre secoli. Il colpo di pistola dell’attacco, quel do che si espande per quattro ottave è il centro di una riflessione insieme storica e musicale. Intanto la relazione tonale. La minore è il relativo minore di do maggiore, do minore la stessa tonica nel modo minore. Le due tonalità in relazione tra loro aprono e chiudono il concerto. L’intelligenza e la sensibilità musicale, ma anche culturale, di un musicista, si misura anche da come organizza i programmi dei suoi concerti. Sia l’incisione, che il concerto, sono costruiti con mirabile coerenza, un quadro chiuso dentro il quale si rispecchia, con la musica, una riflessione sulla musica. Goethe, nel sottofondo, si avverte anche nel concerto. C’è una scena del Faust – testo che un italiano dovrebbe leggere con lo stesso interesse e la stessa passione con cui legge la Commedia di Dante: sono entrambi una sorta d’incunabolo della modernità – ed è quando Mefistofele, per risolvere la crisi finanziaria del piccolo Ducato nel quale Faust è stato eletto ministro – ed è un riferimento autobiografico, Goethe era ministro del Ducato di Weimar – inventa la carta moneta. L’invenzione è satirica, parodistica, una critica all’appariscenza del benessere occidentale. Ma anche un riferimento ironico alla Rivoluzione Francese. Goethe è solo apparentemente ambiguo: conservatore o rivoluzionario? Lukács aveva colto bene la speciosità di questa supposta ambiguità goethiana, che sta più nei lettori di Goethe che nella visione del poeta. Un fenomeno storico non è mai completamente conservatore o completamente rivoluzionario, ma nella rivoluzione serba sempre una traccia di conservazione. L’ironia di Lukács colpisce all’epoca il conservatorismo della cultura sovietica: e qui potrebbe uno ricordare anche Schnittke. Ora, lo stesso accade con il quartetto di Brahms. Il suo apparente classicismo è una maschera che protegge l’andamento sempre nuovo, direi battuta per battuta, della sua musica. La confessione del colpo di pistola, che sarebbe il senso del quartetto, smentisce l’asemanticità che l’amico musicologo Hansilck pretenderebbe come carattere principale della musica, la musica, ci dice Brahms, ha significati, eccome, e il significato di questo quartetto è la disperazione. Disperazione che lo invase per la follia e la morte del suo amico più caro e venerato, Schumann, ma anche per la strada intrapresa dalla musica moderna, che Brahms solo apparentemente sembra rifiutare, ma che di fatto rinnova intraprendendo una “via nuova” che non rigetta il passato, che è, oggi, proprio l’idea del Movimento di quartetto di Antonioni. Così che il cerchio si chiude, ma per lasciare aperto l’orizzonte a quell’idea dell’arte, della musica, che proprio Schumann aveva intravisto leggendo le prime partiture del ventenne Brahms: Neue Bahren, Nuove vie, articolo pubblicato nel 1853 sulla “Neue Zeitschrift für Musik”. A ribadirlo, i musicisti del Quartetto Werther regalano due bis, un insolito Richard Strauss e il sublime Andante cantabile del bellissimo quartetto schumanniano op. 47: qui davvero è prefigurata tutta la storia che verrà, è un bis, ma la musica si pone come una sorta di preludio a ciò che il concerto ci ha raccontato, il vicolo cieco in cui una lunga tradizione, che comincia forse con l’Ars Nova francese del Trecento, o ancora prima con il cantus planus di Cluny, il canto “romano” carolingio da cui nasce tutta la musica europea, e che proprio con il romanticismo sembra toccare una saturazione che la conduce all’estinzione. La “morte dell’arte” sulla quale Hegel e tanti troppo frettolosi successori disquisirono. Qui, però, la fine – come la fine dell’amore nei Frauenliebe und Leben, amore e vita di donna, di Schumann, si fa canto. Si fa perfino desiderio della fine. Vi si può già leggere il delirio finale di Isolde. O quell’annientamento che l’ultimo canto del Das Lied von der Erde il canto della terra, di Mahler prefigura: “ewig, ewig”, eternamente, eternamente. E dietro Schumann, riecco Mahler. Il quadro è finito, si è completato: abbiamo guardato dentro noi stessi, dentro la nostra storia di sopravvissuti alla nostra stessa storia, come rare volte è concesso. All’intelligenza, alla sensibilità della costruzione del programma di un concerto, e perfino dei suoi bis, il Quartetto Werther unisce ciò che è il carattere fondamentale di un complesso da camera: la diversità di ogni singolo interprete usata come materia per combinarle insieme in una compagine che fa risultare il tutto mettendo in rilievo i particolari. Un solo esempio, a spiegare la condotta dei musicisti per tutto il concerto. Il terzo movimento del quartetto brahmsiano comincia con il pianoforte che esegue una successione di accordi sulla quale il violoncello espande una struggente melodia che si avvolge perennemente su sé stessa per uscire dal cerchio e innalzarsi solo all’undicesima battuta e poi ricadere nelle zone gravi. A questo punto entra il violino, con una melodia ancora più struggente, e i tre strumenti proseguono, inebriati, per nove battute. Solo dopo dieci battute entra anche la viola, con una melodia più breve, ma che viene ripresa nella zona sovracuta dal violino, e la conversazione a quattro – come Goethe definiva il quartetto – continua così fino alla fine. Il tocco del pianista, Antonino Fiumara, fa risuonare delicatamente gli accordi, mentre il violoncellista Vladimir Bogdanovic soavemente conduce il suo canto. Entra, delicatissima la violinista Misia Jannoni Santarone, e il canto acquista un nuovo spessore, sono tre le voci, ciascuna autonoma, eppure tutt’e tre concordi, e quando infine entra la viola di Martina Santarone il grande affresco musicale si completa, le quattro figure costruiscono un’unica “conversazione” musicale. Meritatissimo, per ogni pezzo, il furore degli applausi. Perfino l’intemperanza che spinge taluni ad applaudire il singolo movimento di un quartetto non appare fuori posto, perché tale è l’emozione suscitata da una musica colta con tanta finezza che diventa difficile frenare le mani. Di seguito, per il lettore che voglia completare il quadro del mondo evocato da questo concerto, ecco, per intero, l’articolo che Schumann scrisse rivelando al mondo il genio di Brahms.
Robert Schumann, Vie nuove
Sono passati anni, quasi tanti quanti ne ho dedicati in precedenza alla cura di queste pagine, ovvero dieci, da quando ho dato l’ultima mia notizia in questo terreno così ricco di ricordi. Spesso, nonostante l’intensa attività produttiva, mi sentivo stimolato; molti nuovi e significativi talenti sono apparsi, una nuova forza nella musica sembrava annunciarsi, di cui molti degli artisti emergenti degli ultimi tempi sono testimoni, anche se le loro produzioni sono per lo più note a una cerchia ristretta. (Ho in mente qui: Joseph Joachim, Ernst Naumann, Ludwig Norman, Woldemar Bargiel, Theodor Kirchner, Julius Schäffer, Albert Dietrich, senza dimenticare il profondo compositore spirituale C. F. Wilsing, così sollecito della grande arte. Come spiriti precursori dovrebbero essere nominati anche Niels W. Gade, C. F. Mangold, Robert Franz e St. Heiler.) Pensavo, seguendo le orme di questa élite con il massimo interesse, che in questo processo dovrebbe e deve apparire improvvisamente uno che fosse chiamato a dare voce alla massima espressione dei tempi in modo ideale, uno che ci avrebbe portato la maestria non in sviluppi graduali, ma piuttosto, come Minerva, dovrebbe spuntare completamente armato dalla fronte di Zeus. Ed è arrivato, un giovane sangue, sulla cui culla le grazie e gli eroi hanno vegliato. Si chiama Johannes Brahms, è venuto da Amburgo, creando lì in oscura tranquillità, ma istruito nei precetti più difficili dell’Arte da un maestro felice ed entusiasta, che mi era stato precedentemente raccomandato da un maestro noto e venerato. Portava, anche nel suo aspetto esteriore, ogni segno che ci avrebbe annunciato: questo è un eletto. Seduto al pianoforte, ha iniziato a rivelare regioni meravigliose.
Siamo stati attratti in sfere sempre più magiche. Si è verificata una performance completamente brillante, che ha trasformato il pianoforte in un’orchestra di voci lamentose e gioiose. C’erano sonate, sinfonie più velate, – canzoni, la cui poesia si sarebbe capita senza conoscere le parole, anche se una profonda melodia di canzone percorre tutto, – pezzi per pianoforte particolari, di natura in parte demoniaca dalla forma più graziosa, – poi sonate per violino e pianoforte – quartetti per archi – e ognuno così diverso dall’altro, che sembravano scaturire da ogni possibile fonte, e poi sono apparsi, mentre li univa, come una corrente ruggente, tutti come a una cascata, portando l’arcobaleno pacifico sopra il torrente in caduta, dove le farfalle giocano sulle sue sponde accompagnate da voci di usignolo.
Se dovesse agitare la sua bacchetta magica dove i poteri in massa del coro e dell’orchestra gli prestano la loro forza, ci sarebbero in serbo per noi scorci ancora più meravigliosi nei misteri del mondo spirituale. Possa il genio più alto dargli forza, per la quale le prospettive sono buone, perché un altro genio, quello della modestia, dimora in lui. I suoi compagni lo salutano nel suo primo viaggio attraverso il mondo, dove forse lo aspettano ferite, ma anche allori e palme; in lui accogliamo un forte campione.
In ogni epoca presiede una segreta alleanza di anime affini. Voi che appartenete insieme, stringete ancora più strettamente le vostre fila, affinché la Verità dell’Arte possa brillare più chiaramente, diffondendo gioia e benedizioni su tutte le cose.
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