Musica

Speciale 1985 – Live Aid – L’Olimpo del Rock e i Suoi Dèi Caduti

Come un megaconcerto planetario provò a cambiare le sorti della fame nel mondo. E come miseramente fallì, nonostante l’impegno di tutti i protagonisti (più o meno). Ma eravamo tutti giovani e idealisti

13 Luglio 2025

Il 13 luglio 1985, Wembley e Filadelfia pulsarono come un unico cuore sotto un esperimento titanico di ingegneria sociale. Quarantadue satelliti Intelsat tessero una rete transatlantica per la BBC, annullando con un algoritmo della NASA il ritardo di 3,2 secondi che minacciava la sincronia. Io, in una casa di campagna nel centro della Sicilia infuocata dagli oltre 40 gradi di quella giornata, mi dovevo arrangiare a saltare da un canale all’altro della Rai per cogliere qualche boccone di questo mega evento.

Nel frattempo, in quel palcoscenico globale, Freddie Mercury trasformò i Queen in architetti di magia: il suo microfono Sennheiser senza fili, alimentato da quattro batterie nascoste nella cintura, divenne uno scettro per dominare i 72.000 cuori di Wembley. Durante “Radio Ga Ga”, un metronomo digitale pilotato da Roger Taylor scolpì nell’aria un battimani oceanico e perfetto, mentre Mercury, come un direttore d’orchestra rinascimentale, modellava la folla con gesti sapienti.

Dietro il luccichio, il caos regnava. Erano i frenetici anni ’80 e girava di tutto nelle aree Vip dietro il palco dei due palchi. A Philadelfia, Bob Dylan salì sul palco con le corde di una chitarra scordate, salvato solo dall’istinto felino di Keith Richards che, sussurrandogli di saltare la terza strofa di “Blowin’ in the Wind”, coprì l’errore con il riff ancestrale di “Satisfaction”. E mentre la tecnologia univa i continenti, l’umana fragilità si rivelava: Bono, precipitato tra la folla durante “Bad” dei U2 per strappare una fan alla calca, tornò dietro le quinte convinto di aver distrutto la performance. Quell’atto impulsivo, invece, scolpì la band come giganti dal cuore in mano, capaci di trasformare un rischio in leggenda.

Tra le ombre del backstage, due astri brillarono con luce nuova. I Simple Minds, riluttanti eroi del momento, che in primo momento avevano rifiutato “Don’t You (Forget About Me)” prima che diventasse l’indimenticabile colonna sonora di The Breakfast Club, film generazionale per eccellenza (avevo la fidanzata di un vicino di casa che martellava continuamente con questo brano, più o meno all’ora del riposo post prandiale, con il suo 45 giri portatile. Ricordo ancora un altro vicino inferocito, sceso a litigare con chiunque si fosse trovato davanti).

Al Live Aid, quel brano vissuto dalla band in maniera recalcitrante esplose in un inno, sigillando il loro destino di re degli stadi mentre l’album Once Upon a Time premeva alle porte del mondo (tra l’altro non contenendo il suddetto brano). Poco tempo dopo, Sade incantò Wembley con un controcanto al caos: la sua “Your Love Is King” fu un sussurro di velluto in un turbine di distorsioni, un jazz-soul che sospese il tempo. Quell’eleganza minimalista fu il preludio a Promise, l’album che di lì a mesi avrebbe conquistato le vette, dopo l’esordio di Diamond Life che aveva fatto drizzare le orecchie ai critici e agli appassionati.

L’impresa, costata alla fine 40 milioni di dollari, fu segnata da ferite: 700.000 dollari svaniti in un errore di cambio valuta, mentre le ombre sulla gestione degli aiuti all’Etiopia alimentarono polemiche anche se smentite anni dopo. Per non parlare delle polemiche di tipo “culturale” che ancora oggi suscita il ricordo dell’evento. Un concerto nato per l’Africa, ma costruito su una narrativa che gli intellettuali africani avrebbero poi smontato pezzo per pezzo. Al centro di questa critica c’è Dipo Faloyin, giornalista nigeriano-britannico, il cui libro L’Africa non è un paese (2025) diventa la lente per rileggere Live Aid non come gesto eroico, ma come sintomo di un paternalismo tossico.

Per Faloyin, la genesi stessa dell’evento tradisce una visione distorta. Il documentario BBC sulla carestia etiope del 1984, che ispirò Bob Geldof, fu definito dal reporter Michael Buerk “l’inferno in Terra” . Immagini strazianti di bambini denutriti, come la piccola Birhan Woldu, divennero l’iconografia unica di un continente ridotto a monolite della sofferenza. Eppure, nota Faloyin, quel reportage – pur nella sua verità – ignorava completamente il contesto politico: il regime marxista di Mengistu Haile Mariam in Etiopia, che secondo alcune fonti avrebbe dirottato parte degli aiuti umanitari per acquistare armi. Live Aid ereditò questa cecità: 16 ore di musica raccolsero 150 milioni di sterline, ma solo una frazione arrivò davvero ai bisognosi. Woldu stessa, ritrovata dal Guardian a 34 anni, confessò: “La situazione nel mio Paese non era cambiata granché”.

Il cuore della critica di Faloyin batte però nella canzone simbolo dell’evento: “Do They Know It’s Christmas?” dei Band Aid. Quel tormentone natalizio del 1984, antesignano di Live Aid, descriveva l’Africa come un luogo dove “non cresce nulla” e scorrono solo “lacrime amare”, cancellando con un colpo di pennello la complessità di 54 nazioni. “Ha condensato tutti i peggiori stereotipi su un intero continente in un motivetto di quattro minuti”, scrive Faloyin. Quel testo, secondo Faloyin, inaugurò l’era del “salvatore bianco”: l’Occidente che si erge a redentore di un’Africa dipinta come passiva e incapace, ignorando non solo le sue vitalità culturali ed economiche, ma anche il ruolo storico del colonialismo nel crearne le crisi.

Ma il miracolo, almeno sul momento, restò intatto: 1,9 miliardi di occhi in 150 nazioni videro Phil Collins volare sul Concorde per battere le pelli a Londra e Filadelfia nello stesso giorno, mentre i Led Zeppelin vacillavano nella reunion e Bowie accendeva “Heroes” come un faro. Quarant’anni dopo, il documentario Live Aid at 40 e il musical Just for One Day provano a raccontare ancora quell’utopia, dove perfino un metronomo digitale poté far battere le mani di un pianeta all’unisono.  “All We Hear Is…”

Playlist Capitolo 3 (7 brani):

1. Queen – “Radio Ga Ga” (Live Aid)

2. U2 – “Bad” (Live Aid)

3. David Bowie – “Heroes” (Live Aid)

4. Simple Minds – “Don’t You (Forget About Me)” (Live Aid)

5. Sade – “Your Love Is King” (Live Aid)

6. Dire Straits – “Money for Nothing” (Live Aid)

7. Band Aid – “Do They Know It’s Christmas?” (Chiusura simbolica)

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