La musica del 1985 è ricca di figure comparse, arrivate al successo, e poi rapidamente sparite

Musica

Speciale 1985 – L’ultimo anno del rock “ribelle”

Mentre le classifiche erano ancora dominate da chitarre iperamplificate e cori da stadio, sotto la superficie si agitavano i sintomi di una trasformazione irreversibile e, per certi aspetti, fatale.

9 Agosto 2025

Il 1985 rappresentò per il rock un paradosso stridente: mai il genere aveva raggiunto una tale esposizione globale, e mai era apparso così svuotato della sua carica sovversiva. Mentre le classifiche erano dominate da chitarre iperamplificate e cori da stadio, sotto la superficie si agitavano i sintomi di un declino irreversibile.

Un esempio fu la vicenda del supergruppi in cui riaffiorò la logica del brand di cui parlavamo nella puntata precedente .La formazione dei The Firm (Paul Rodgers e Jimmy Page), a titolo di puro esempio, sintetizzò la crisi d’identità del rock. L’album d’esordio omonimo raggiunse l’undicesima posizione nella Billboard 200, ma fu un prodotto senz’anima: Page rinnegava il virtuosismo zeppeliano in favore di riff ripetitivi, mentre Rodgers imbrigliava la sua voce blues in arrangiamenti asettici. Fu un fallimento annunciato dalla stampa: “Due monumenti del rock che suonano come una cover band di se stessi” (Rolling Stone). Il progetto naufragò dopo 18 mesi, simbolo di un mercato che trasformava le leggende in brand ricombinabili.

Nel frattempo, a dominare le radio erano i Bon Jovi (Runaway) e i Ratt (Lay It Down), campioni di un hair metal che, nato a forza di permanenti e boccoli negli anni precedenti, diventava sempre più standardizzato. I testi celebravano eccessi senza conflitto (“Round and Round è l’inno di chi non ha nulla da dire”, scrisse Robert Christgau), mentre la produzione digitale appiattiva le chitarre in suoni da jukebox.

Nello stesso anno, però, negli scantinati universitari fioriva la scena alternative. Abbiamo già parlato dei R.E.M. che proprio quell’anno pubblicarono Fables of the Reconstruction, un disco ipnotico e folk-oscuro che dipingeva un Sud USA spettrale, lontano anni luce dai lustrini di Hollywood.  Ma ci furono anche gli Hüsker Dü sfornarono New Day Rising, 35 minuti di hardcore melodico che influenzerà i Nirvana.

La frattura era netta: da un lato un rock mainstream sempre più prodotto in serie, dall’altro artisti che rifiutavano MTV, costruendo un circuito alternativo (college radio, club indipendenti).

Un altro sintomo della crisi della natura del rock fu rappresentato dalle tournée oceaniche, di cui quella di Bruce Springsteen fu solo l’apice ma rappresenta al meglio la trasformazione in corso. In questo contesto, il “Born in the U.S.A. Tour” emerse non solo come evento musicale, ma come fenomeno sociologico che ridefinì le ambizioni del rock.

La tournée, partita in realtà nel giugno 1984 e protrattasi per sedici mesi attraverso quattro continenti, divenne la più lunga e redditizia della carriera di Springsteen, attirando 3,9 milioni di spettatori. Springsteen appariva fisicamente trasfigurato – dopo due anni di bodybuilding, il suo fisico scolpito diventò un simbolo visivo della sua determinazione scenica.

Springsteen rivoluzionò l’esperienza concertistica attraverso innovazioni tecniche senza precedenti. Su richiesta del sound engineer Bruce Jackson, venne implementato un sistema audio con otto file di altoparlanti di ritardo, garantendo una fedeltà sonora perfetta anche agli spettatori negli ultimi ranghi degli stadi. Questa soluzione, sebbene costosa e imitata in seguito con l’effetto di aumentare i prezzi dei biglietti per altri artisti, dimostrò la volontà di Springsteen di privilegiare la qualità artistica rispetto alle logiche commerciali. Le esibizioni duravano regolarmente oltre tre ore, trasformando ogni concerto in un rito collettivo di resistenza fisica ed emotiva, come documentato nel cofanetto “Live/1975-85” che catturò momenti epici dalle tappe di East Rutherford e Los Angeles.

Dopo la prima leg americana, la tournée toccò l’Australia nel marzo 1985, dove Springsteen suonò nel primo stadio all’aperto a Brisbane (QE2 Stadium). L’apice fu raggiunto il 4 luglio a Londra: davanti a 72.000 persone a Wembley, Springsteen aprì il concerto con una versione solitaria di “Independence Day”, trasformando la data americana in un manifesto di identità globale.

Oltre ai numeri, il tour lasciò un’impronta nell’immaginario collettivo. Le sei serate al Giants Stadium di East Rutherford (agosto 1985) consacrarono quel palco come luogo simbolo per Springsteen, che venticinque anni dopo gli avrebbe dedicato la canzone “Wrecking Ball”. La tappa finale al Los Angeles Memorial Coliseum (2 ottobre 1985) vide il debutto live di “War”, una feroce condanna del militarismo che sarebbe entrata nella tracklist ufficiale di “Live/1975-85” . Il tour dimostrò che il rock poteva ancora essere uno spazio di condivisione di massa, ma anche che rischiava di diventare un monumento a se stesso. Mentre gli hair metal semplificavano il messaggio rock per adattarlo a MTV, Springsteen lo riempiva di storie complesse, tenendo viva un’idea di comunità che il grunge avrebbe fatto esplodere pochi anni dopo.

Playlist: 1985 – Arena Rock, Stadioni e Sottobosco**

*Durata totale: 37 minuti | Ordine studiato per transizioni fluide*

 

1. Ratt – “Lay It Down

L’apice hair metal: riff viscido di Warren DeMartini, testo a doppio senso e produzione lucida. Il singolo raggiunse il #40 in Billboard .

2. Bruce Springsteen – “Cover Me” (Live, Londra-Wembley, 4 luglio 1985)

Versione amplificata rispetto all’originale in studio: Nils Lofgren esplode in un assolo infuocato, mentre la band trasforma il brano synth-pop in hard rock da stadio.

3. The Firm – “Radioactive

Inno hair rock per eccellenza: batteria martellante, cori da stadio e il groove blues di Page. Unico loro singolo Top 40 (#28), simbolo del corporate rock dell’anno.

 

4. Hüsker Dü – “Makes No Sense at All

Sferzata punk-pop da 2:43: distorsioni caotiche, melodie ipnotiche e testi surrealisti. La band di Minneapolis sfidò le logiche di mercato con due album nel 1985 , anticipando il grunge.

 

5. Bruce Springsteen – “Bobby Jean” (Live, East Rutherford, 19 agosto 1985)

Emozione pura nel Giants Stadium: sax di Clarence Clemons, pianoforte malinconico e la voce roca di Bruce. Inclusa nel cofanetto “Live/1975–85” come simbolo dei legami spezzati. Dedica all’ex chitarrista Steven Van Zandt.

6. Bon Jovi – “Runaway” (Live, Tokyo 1985)

Jon Bon Jovi in versione ancora “underground”: chitarra synth-driven, cori glam e energia da club. Contraltare perfetto all’onestà di Springsteen.

7. R.E.M. – “Feeling Gravitys Pull

Apertura di Fables: riff in minore, atmosfere gotiche, cello dissonante . Il lato “oscuro” del 1985 alternativo.

 

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