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Musica

Starway to revenue: quando i riff fanno cassa

di Marco Di Salvo

I working class heroes del rock hanno smesso di produrre nuovi sogni e scavano negli archivi della loro produzione per fare cassa

6 Aprile 2025

La presentazione del prossimo boxset di Bruce Springsteen in uscita per il giugno prossimo, una raccolta di outtakes che fa il paio con il primo Tracks uscito alla fine degli anni 90, ha provocato sgomento nell’hardcore dei fan Springsteeniani. Il motivo è semplice: un prezzo spropositato per quanto offerto. E visti i chiari di luna del periodo, compresi i dazi, c’è poco da stare allegri per chi è appassionato del rocker del New Jersey. Già negli ultimi anni molti si erano allontanati per colpa dei prezzi elevati dei biglietti dei live, ma ipotizzare più di €300 in Europa per un cofanetto di 7 cd e quasi €350 per un cofanetto di nove LP (naturalmente pieno di altre chicche da collezionisti che una volta sarebbero state molto apprezzate), è stata una cosa che in moltissimi non hanno buttato giù.

Si tratta della inevitabile deriva di una tendenza affermatasi nel corso dell’ultimo decennio, l’estrema monetizzazione della produzione musicale.

Gli archivi dei musicisti rock rappresentano un tesoro artistico e commerciale, composto da registrazioni master, demo, outtake, concerti dal vivo, testi, e memorabilia. Con l’avanzare dell’età di molti artisti storici o il passaggio delle loro eredità, questi archivi sono diventati oggetto di complesse strategie di monetizzazione, spesso gestite dalle major discografiche attraverso acquisizioni di diritti e ristampe di materiale inedito.

Uno dei meccanismi principali è la cessione dei diritti d’autore e delle registrazioni originali alle major. Artisti come Bruce Springsteen, Bob Dylan, e Paul Simon hanno venduto i loro cataloghi per somme milionarie (Springsteen alla Sony per 500 milioni di dollari nel 2021), garantendosi liquidità immediata e trasferendo alle etichette il compito di amministrare e sfruttare il loro lavoro. Per le major, si tratta di un investimento a lungo termine: i brani classici generano introiti stabili attraverso streaming, sincronizzazioni in film o pubblicità, e licenze. Tuttavia, questa pratica solleva questioni etiche: l’artista perde il controllo sulla propria opera, rischiando di vederla associata a contesti commerciali o politici lontani dalla sua visione originaria.

Parallelamente, le ristampe di album in edizioni “deluxe” o box set sono diventate un pilastro del marketing discografico. Opere come The Beatles: Anthology o i box di The Rolling Stones, Dylan e Springsteen stesso includono outtake, mix alternativi, e registrazioni live. Queste proposte, rivolte a collezionisti e fan accaniti, trasformano l’archivio in un prodotto di lusso. Le major giustificano i costi con il restauro audio, il packaging ricercato, e il valore storico del materiale inedito. Tuttavia, come l’ultimo caso in esame, alcune operazioni sono criticate come speculative, soprattutto quando includono brani che l’artista aveva scartato per motivi artistici, alterando la percezione della sua eredità.  E il fatto che lo stesso Springsteen si presti all’operazione vidimandola con la sua presenza nella promozione, non toglie ai fan l’idea che di operazione puramente commerciale si tratti.

Il fenomeno riflette un mercato musicale sempre più orientato al passato: con il calo delle vendite di nuovi album, le major puntano su cataloghi consolidati, sfruttando la nostalgia e la fedeltà dei fan. Piattaforme come Spotify amplificano questo trend, dove i classici hanno una vita commerciale infinita. E diventano l’ultimo posto dove poter ascoltare, a prezzo modico, le nuove uscite di questi (ex) working class heroes.

finanza Rock
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