
Storia
Il nostro genocidio culturale
“Genocidio culturale” è l’espressione utilizzata da Pier Paolo Pasolini, e le vittime siamo noi.
31 Luglio 2025
Mia nonna, contadina meridionale, classe 1920, aveva più cose in comune con un contadino del XIV secolo di quante ne avesse con me.
Con quella figura del passato condivideva i proverbi, i motti sull’alternarsi delle stagioni, le tradizioni, le battute di spirito, gli aneddoti familiari, paesani, i pettegolezzi, il modo di intendere la religione, la famiglia, il sesso, i rapporti sociali, la nascita, la morte.
Con me, praticamente nulla di tutto questo.
Condivideva, con il contadino del XIV secolo, persino una certa concezione pagana e rurale del soprannaturale. I racconti sussurrati sul “laureddhu” e su altri demoni antichi delle notti di campagna. E poi il racconto di quel tizio che si rifiutò di partecipare alla processione per il Santo, e fu colto da un attacco di diarrea. E lei e tutto il paese erano tranquillamente convinti che fosse una vendetta del Santo. Non si trattava tanto di fede cattolica, ma di fede in Qualcosa d’Altro.
Tra mia nonna e mia madre, classe 1956, “boomer” figlia del boom economico, c’è un buco nero della storia. Una continuità temporale millenaria è stata improvvisamente interrotta, tagliata di netto, in un punto preciso della cronologia umana.
In quegli anni, come nel famoso romanzo di Ende, Pier Paolo Pasolini sentiva, intorno a lui, l’avanzata fagocitante del Nulla. Rimane traccia del suo viso scavato, terrorizzato, in quel famoso video a Sabaudia, in cui annunciava il “nuovo fascismo” della “civiltà dei consumi” che distruggeva “le varie realtà particolari”.
“È successo tutto così in fretta, che non ce ne siamo nemmeno resi conto”. L’espressione che utilizzava nei suoi articoli corsari era “genocidio culturale”. Negli stessi anni la Scuola di Francoforte elaborava un concetto simile: ai totalitarismi “imperfetti” delle dittature del Novecento, incapaci di ottenere la piena omologazione, i francofortesi contrapponevano i totalitarismi “perfetti” delle democrazie liberali, macchine infallibili di disintegrazione delle radici e delle identità. Jacques Le Goff confermava questa analisi, quando legava in una longue durée il contadino del XIV secolo e mia nonna, ma non mia madre.
Il punto da capire è questo: carestie, sciagure collettive, guerre, crolli colossali degli imperi, non hanno mai interrotto la continuità culturale dell’umanità. La Seconda Guerra Mondiale non ha significato, per mia nonna, alcuna rottura con il suo passato. Una lavatrice e una televisione invece sì. Non parliamo dunque di traumi esterni, ma di una mutazione antropologica interiore e radicale.
Quando si fanno questi discorsi, purtroppo, si tende sempre a inquadrarli nella dicotomia tra apocalittici e integrati. Ma qui non si tratta di essere contrari o favorevoli al “cambiamento”. Si tratta di esserne consapevoli, si tratta di capire che non c’è MAI stata, in TUTTA la storia dell’umanità, una tale distanza tra nonni e nipoti, un tale cratere nella trasmissione dell’eredità culturale e simbolica.
Il nostro inconscio collettivo ha conservato lo smarrimento di questa cesura. Ad esempio nel cinema. In film come “Parenti Serpenti” o “Il sorpasso”, i protagonisti sono idealtipi dell’uomo moderno che uccidono il loro passato ancestrale, in entrambi i casi rappresentato da personaggi innocenti. Morti brutali e ingiuste che generano angoscia e senso di colpa nello spettatore, anche se egli non sa spiegarsi perché.
Nella scena finale di “Baarìa” di Tornatore, un bambino degli anni ’20, più o meno dell’età di mia nonna, viene catapultato nella Bagheria degli anni 2000 (video in basso). In qualunque altra epoca del mondo, quel bambino avrebbe riconosciuto il proprio paese, anche a distanza di 80 anni. Ma non tra gli anni ’20 del Novecento e gli anni 2000. L’unica cosa che riconosce, significativamente, è l’unica rimasta identica: la chiesa del paese (e qui parte Morricone, che ve lo dico a fa’).
Mia nonna era un reperto storico vivente di datazione medievale. Ho avuto l’occasione di assistere al suo tramonto e al tramonto di un’era millenaria dell’umanità. Le ultime parole che mi ha detto sono le ultime parole di un’era dell’uomo. I nostri figli non ne sapranno più nulla. Apparteniamo alla generazione del congedo e della partenza verso una destinazione ignota.
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[in copertina, Nonna Trieste di “Parenti Serpenti”, di Mario Monicelli]
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