Storia
La città presepe del dopoguerra
Una città|una memoria (1-2)
1.
Di botto a Salierne. In Via Sichelgaita 48. Basta con Casebbarone e con la casa di nonna Fortunata. Basta coi cugini. Basta con le stradine silenziose che a serpentina s’insinuavano tra i campi coltivati, anch’essi senza rumori. Lì Chiero ci passò sempre a piedi. E più tardi – d’estate, durante le vacanze ai tempi in cui a Salerno fece le elementari e le medie – sulla bicicletta dei cugini Alfano. In auto, solo tanti anni dopo.
Via Sichelgaita era un posto nuovo per due guagliuncielli, curiosi e spaesati. Ci vanno ad abitare che è il quarantacinque-quarantasei, a guerra finita. Cà isse e o frate suoie, Eggidie, là nun cunuscevene proprie a nisciune. Stevene chiuse ‘ncase. E e primm’e iuorne nun scennevene manche fore nzieme a l’ati guagliune ca facevane bande, ma se ne stevene ‘ncopp’ao balcone ra palazzine, ca ere o nummero 48 e Vie Sichelgaite. E, a sere, che tristezze. Quanne faceve notte pe sta via s’appicciavene si e no quattre lampiuni. Une ogni ciente metre. E cu na lampadine debbole ‘ncima a nu pale e legne. Ca, quanne se fulminave, l’operaie aveva saglie cu doie specie e favece e fierre attaccate ae piere. Po a mamme nunne tenette chiù. Specie a Nunuccie ca vuleve scenne abbascie a giucà chiagneve e sbatteve e piere pe terra e urlave. Nannine non voleva. Li fece scendere soltanto nell’androne interno sott’o purtone. E là giocavano con le figurine ‘ncopp’e gradine. Oppure ievene rint’o giardine ra signora Goglie e stevene nu poche cue figlie femmene ra signora Goglie, Rosanne e Ada (ca Ughe se ne ieve pe cunte suoie). Soltanto alcune settimane dopo che erano arrivati nella nuova casa, Chiero e o frate riuscirono a fare amicizia anche cu e guagliune ca facevene a banda e Via Sichelgaita e ievene là attuorne pe miezz’ae campe. Nannine nu poche s’ere rassegnate, pure se teneve sempe paure. E che puteve fa? O guaglione se ne scappave fore lo stesse pe ghi a giucà cu Anielle e Peppeniell’e, e figlie ra signora Martine, Rosarie e Tunine Iemme e po Carle Sassone e a sore chiù piccirelle, Lucie. E po quacche vote arrivavene pure ati guagliuni e guagliune ra ate palazzine. Venevene Adriane e Marie. E Rosario ca ere o chiù gruosse e po chillu puverielle ca o chiamavene o Zelluse. ca manch’ se sapeve che nome faceve.
2.
O’ surde abitava uno scantinato a piano terra senza servizi igienici. Prima dell’alba lo si sentiva sollevare con un gancio il tombino di ghisa della fogna appena costruita e versarvi dentro il suo bidone di liquami. La porta dello scantinato dava direttamente sulla strada ed era quasi sempre aperta. Chi passava lanciava un’occhiata all’interno, rallentando curioso o proseguendo veloce.
Lui era sempre lì. Passava quasi tutta la sua giornata nel locale poco illuminato e maleodorante. Era un bravo elettrotecnico. Riparava le radio, allora ancora a valvole di vetro, piccole cupole che racchiudevano architetture di filamenti metallici. Ma aveva un’abilità ancora più attraente per i bambini: sotto Natale in quel suo scantinato costruiva un presepe così grande che nessuna stanza d’appartamento avrebbe potuto contenerlo.
Cominciava i preparativi agli inizi di dicembre. Accostava alla lunga parete di fondo ampi e robusti tavoli e vi faceva crescere sopra giorno dopo giorno una intelaiatura di pezzetti di legno, segati nelle giuste misure. Li inchiodava con brevi colpi di martello e l’impalcatura con archi e travature ben calibrati risultava alla fine solidissima. Poi segnava in anticipo con gessetti colorati i punti da illuminare: la grotta, i palazzi, le casette. Infilava piccole matasse di fili elettrici e ricopriva tutto con carta da pacchi marrone scuro spiegazzata e arricciata. Spruzzi di tempera di vario colore fingevano picchi nevosi, radure e vegetazione. Muschio e pungitopo, sabbia e sassolini ordinavano gli spazi orizzontali.
Alla fine il presepe somigliava alla città in cui si abitava. Era come vederne una sezione da lontano, da un peschereccio in mezzo al golfo o da un aereo. Palazzi e casette dalle architetture semplificate s’aggrappavano ai pendii verdeggianti come quei pochi che allora si vedevano nei dintorni.
Quando anche le statuine dei pastori erano ai loro posti, nel buio stanzone le luci colorate si accedevano e spegnevano e i ragazzi invitati allo spettacolo s’incantavano dietro le figure di pastori, macellai, pescivendoli, acquaioli, falegnami: un’immobile società in miniatura dispersa fra balzi, valloni, sentieri e anfratti.
Anno dopo anno o’presepie ro Surde presentò minime variazioni: la grotta prima più buia, poi illuminata da lampadine ben celate di vario colore; le montagne dalle superfici poco mosse a catene di plastici spuntoni; i pastori di gesso più tardi infrangibili e distribuiti in spazi meglio ripensati, più narrativi. E così anche la città attorno. Solo d’inverno pareva più minacciosa. Per tutta l’infanzia restò semplice da osservare ed esplorare: un presepe sovradimensionato. Facili le corrispondenze fra i muschi di quell’artefatto immobile e la fitta vegetazione delle colline circostanti o fra i volti e gli abbigliamenti dei pastori e quelli della gente del vicinato o che girava per i vicoli.
Poi con violenta e non databile lacerazione, città e presepe si svilirono a mondo di cartapesta. La minaccia, prima invernale o incombente solo negli sguardi troppo ansiosi e nel dialetto più arrochito e tagliente, mostrò precisi luoghi di provenienza. Frenetici cantieri stavano sventrando la macchia verdastra: stroncarono querce e ulivi, sconvolsero coltivi e sentieri. Poi sempre più fitte quinte di muri – in tufo, in mattoni forati – velarono il golfo che si vedeva luccicare dalla finestra, ora compatto ora mutevole, da est fino ad ovest.
Il mutamento fu precipitoso e inafferrabile. Penetrò anche dentro con un più insidioso accumulo di paure, nozioni, catechismi e scolastici sezionamenti. Gli affetti, che prima si sedimentavano quotidiani e dolcemente durante le visite a parenti e conoscenti, divennero anch’essi contorti. Cominciò la fuga.

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