
Storia
Le ceneri di Troia
La letteratura e la riflessione filosofica ci confermano che la storia è un succedersi di distruzioni: le ceneri di Troia sono ancora le ceneri di ciò che continuiamo a distruggere.
La storia è spesso – o sempre? – insoffribile. Sia che si studi il passato sia che si subisca il presente. Sembra dominata da una furia distruttrice. Poeti, narratori, storici, filosofi ci hanno spesso riflettuto. Talora cercando un filo che ne spieghi l’evolversi. Sant’Agostino ha per primo evocato l’idea di un piano trascendente, un disegno divino che la renderebbe “razionale”. Quest’idea è ripresa, in senso laico, da Hegel, che anche lui intravede un disegno razionale nell’evolversi della storia, ma immanente al corso stesso degli eventi. Da qui l’espressione poi spesso abusata di Weltgeist, spirito del mondo, segno dei tempi, diremmo in italiano. C’è, comunque, già nella ipotesi di Agostino un disgusto, un orrore dell’accadere, che si risolve nella speranza di un altro ordine, un altro mondo, un’altra vita: la Civitas Dei, cioè il Regno della Giustizia. Idea che, in ogni caso, già nelle pagine di Agostino, sembra un atto di accusa per la città degli uomini, che è il regno dell’ingiustizia. Un regno della giustizia è sublimato anche da Dante come contrapposto al disordine e all’ingiustizia del regno umano.
Lo scrittore albanese Kadarè, che ha a lungo riflettuto sul poema dantesco, parallelamente all’Oresteia di Eschilo, lo legge come una proiezione utopistica di un Ordine della Giustizia che si contrappone alla disillusione, alla disperazione, anzi, che angoscia Dante quando riflette sulle vicende degli uomini. Ci è rimasto un sonetto del poeta che confermerebbe l’interpretazione di Kadarè: “Tu che vedi gli occhi miei di pianger vaghi”. È una preghiera in cui Dante chiede a Dio di restituire al mondo degli uomini la Giustizia: “che sanza lei non è in Terra pace”. Ora, mai come in questi anni l’orrore di un Weltgeist sembra offuscare il mondo. Due guerre vicino a noi, in terra Europea e in Medio Oriente, sembrano interrompere un lungo periodo di pace. Dico sembra, perché in realtà l’esperienza e dunque la percezione di una pace è quasi solo europea, una volta finita la seconda guerra mondiale. Ma in Asia, in Africa, in America Latina è stato un susseguirsi di colpi di Stato, di guerre, di genocidi e di persecuzioni. Corea, Vietnam, Laos, India-Pakistan, Burkina Faso, Congo, Cuba, Brasile, Uruguay, Cile, Argentina, Bolivia, Biafra, Congo, Uganda, Sudan, Etiopia, Eritrea, Somalia, Nigeria, e non le ho nominate tutte. In questi giorni una nuova guerra si è accesa tra Tailandia e Cambogia. Ora, sarà pure un racconto mitologico – ma che coinvolge una grande parte del mondo: ebrei, cristiani e musulmani – ma la “storia” biblica comincia con un fratricidio, e non avendo Abele discendenti, saremmo tutti discendenti di Caino.
Agostino aveva le sue ragioni per elaborare una idea pessimistica della storia umana. Nel canto di Farinata, il X dell’Inferno, Dante ci pone davanti a un problema insolubile della storia: il continuo prodursi, tra gli uomini, di lotte, e stermini, anche all’interno della stessa parte politica. Farinata appartiene a uno schieramento avverso a quello di Dante, e Dante si accinge a rintuzzargli questa avversità, ma Farinata subito lo blocca affermando che il nemico lo aveva trovato tra quelli della sua parte. Nel Purgatorio un ucciso della battaglia di Campaldino, dall’altra parte della vita, vede lo scempio che si fa del suo corpo. Il suo sangue si fa “lago”. Ma il testo che forse più di ogni altro rappresenta senza speranza l’orrore della guerra è il secondo libro dell’Eneide. A parte il fatto del paradosso che a celebrare la grandezza di Roma Virgilio scriva il poema di un vinto e di un profugo (Maurizio Bettini ha scritto su questo un bellissimo saggio, Homo sum, Torino, Einaudi, 2019 – attacco di un bellissimo verso di Terenzio: Homo sum, nil humani alienum puto, sono uomo, non ritengo estraneo niente di ciò ch’è umano -), è tutto il poema che sembra una riflessione sui perdenti, della vita (Didone! l’assassinio di Priamo per mano del figlio di Achille Pirro, lo stesso Turno, la cui morte chiude il poema) e della storia.

Jules Lefebvre, La morte di Priamo
Il finale del II libro è terrificante. Tanto più che a raccontare la caduta di Troia è un troiano che l’ha vissuta. Il tranello del cavallo ha funzionato. Di notte i greci nascosti nel suo ventre sono usciti e hanno aperto le porte della città all’esercito acheo. Comincia la strage, l’incendio. Correndo per le strade senza meta, senza sapere contro chi combattere – Virgilio è insuperato e insuperabile nel tratteggiare lo smarrimento di chiunque in una situazione senza uscita – s’imbatte in Elena che spaventatissima si è rifugiata dentro il tempio di Vesta. Enea, vedendola, è sopraffatto dall’impulso di ucciderla e vendicare su di lei lo scempio della città. Ma gli appare all’improvviso sua made, Venere, in tutto lo splendore della divinità. E anche questo è un tocco da sublime poeta: da una parte l’orrore dell’incendio e delle stragi, dall’altra l’olimpica luce della divinità: “pura per noctem in luce refulsit / alma parens”, pura attraverso la notte nella luce rifulse / la divina genitrice (ma alma è attributo più denso, nutrice, protettrice, è l’attributo che anche Lucrezio associa a Venere, nel proemio del suo poema, “alma Venus”, e forse da lì lo trae Virgilio, che ha più di un debito con Lucrezio). Venere gli sgombra dagli occhi la “nebbia” che tappa gli occhi degli uomini non fa loro vedere come sono e come stanno veramente le cose. Enea allora vede gli dei associarsi ai guerrieri achei nella distruzione della città, Nettuno, Pallade, Giunone scardinano le mura, sasso su sasso, demoliscono i palazzi, distruggono le case. Un’illusione, sembra suggerirci Virgilio, che la storia sia fatta dagli uomini. Altre sono le forze che la fanno accadere, e sono forze distruttive. L’intervento degli dei nella distruzione di Troia non è solo un’invenzione mitologica, una metafora poetica. È qualcosa di più profondo. Gli dei sono forze della natura, nel politeismo antico. Anche qui ci soccorre Bettini con un altro bellissimo saggio: Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche, Bologna, il Mulino, 2014. “Se si parte dal principio che gli dei sono molti viene meno il motivo per affermare che quelli degli altri sono falsi dei o bugiardi … All’interno delle nostre società, l’adozione di alcuni quadri mentali propri del politeismo ridurrebbe senz’altro il tasso di conflittualità fra le diverse religioni monoteistiche e le loro interne suddivisioni” (risvolto di copertina). Il mito è una lettura metaforica della realtà, bisogna perciò prenderlo alla lettera. Quando noi diciamo “brucio d’amore”, non stiamo dicendo che bruciamo veramente, ma che l’amore è un fuoco che ci brucia. Quando Venere dice al figlio Enea che sono gli dei stessi a demolire Troia non dice che i greci non sono responsabili della distruzione, ma che la violenza distruttrice da cui sono dominati i greci è una forza immanente che li supera, che li travolge. E contro la quale è impossibile opporsi. Ogni pacifismo disarmato deve arrendersi a questa realtà. Chi obietta che però Gandhi riuscì a sconfiggere la Gran Bretagna, non considera che appunto Gandhi aveva di fronte la Gran Bretagna, non la Germania di Hitler, o la Russia di Stalin e oggi di Putin. Il punto sta però in un’altra riflessione che anche questa ci viene da un testo classico. Nell’Elena Euripide fa dire al coro che fu una stupidaggine dichiarare guerra a Troia, con grande sofferenza sia degli assediati sia degli assedianti, quando la questione poteva essere risolta discutendone intorno a un tavolo. In altre parole, trattando con la diplomazia. Cioè, non andava provocata la guerra. Ma una volta scatenatasi, la forza della distruzione è senza pietà e inarrestabile fino alla resa di uno dei due contendenti. Chi amministra il proprio potere affidandosi solo all’uso della forza, se la ride se l’aggredito gli chiede di smetterla perché non gli va di combattere. Va bente, non ti va? Chi se ne frega: io ti piglio, così stai zitto. È la logica di Atene con gli abitanti di Milo: avete tutte le ragioni, la giustizia vorrebbe che noi agissimo come voi chiedete. Ma avete la forza per imporci queste vostre ragioni, le ragioni che dite sono della giustizia? No? Allora noi vi eliminiamo. E li eliminarono. Alla lettera: uccisero tutti i maschi, anche i bambini e gli infanti. Le donne, le deportarono su altre isole. Ripopolarono l’isola di Milo con nuovi abitanti deportati da altre isole. Tutto ciò ce lo racconta splendidamente, come sempre, Tucidide, forse lo storico più intelligente mai nato. E questo disumano eccidio fu compiuto non da una dittatura, come erano Sparta, o la Persia, ma dalla democratica Atene, e dalla civilissima Atene nel periodo in cui più radicalmente venivano applicati i principi della democrazia, al limite di ciò che oggi chiameremmo populismo, e i greci chiamarono ochlocrazia (ὀχλοκρατία), potere della massa, vale a dire: dittatura della maggioranza. Oggi, questo sembra, di nuovo, lo Zeitgeist. Traetene le conclusioni.
Devi fare login per commentare
Accedi