Storia
Tra ferro e passione: storia di Giuseppe, il maniscalco che accarezza il cuore dei cavalli
Il racconto di uno dei pochi ferracavalli rimasti in Italia per ripercorrere le tappe di un mestiere antico che ha accompagnato l’uomo per due millenni
Il cammino di Giuseppe Gandini, uno dei 4 mila maniscalchi rimasti in Italia, è segnato, da due figure chiave: nonno Vittorio, che sin dalla tenera età gli ha trasmesso la passione per i cavalli, e il maresciallo dell’esercito Vincenzo Blasio che al termine della scuola di mascalcia lo ha introdotto nell’arte della ferratura. Ogni storia, del resto, corre sul binario degli incontri, spesso casuali, che incrociano le esistenze dei protagonisti e ne tracciano il percorso.
Loro, in definitiva, hanno scritto il suo destino, il cuore invece è stato guidato dai circa 30 mila cavalli, che lui ha incrociato in più di trenta anni di lavoro al servizio di un mestiere antico, quello che nei centri come il suo, la piccola Guidizzolo, in provincia di Mantova, definiscono ancora il “ferracavallo”.
L’esordio della storia dell’artigiano mantovano, riporta ai primi anni 80, quando da militare, viene assegnato all’unità di fanteria, lì entra in contatto con i cavalli e conosce il maniscalco della caserma. La missione che presto diventa lavoro, sostenuta dalla successiva scelta di frequentare la scuola militare di mascalcia a Pinerolo.
L’ascesa nel mestiere non tarderà ad arrivare ed è anche l’affermazione del trasporto personale verso i cavalli che si rinnova ad ogni ferrata nel gesto semplice di una carezza, di un richiamo tenero o da quella corrispondenza di sguardi capace di comunicare più di mille parole. Emozioni difficili da narrare ma anche sentimenti contrastanti come la paura, il distacco e poi, infine, la fiducia. È quest’ultima la vera chiave di accesso al cuore del cavallo, sostiene Giuseppe, perché “l’emozione più grande di questo lavoro si prova quando l’animale capisce che può fidarsi e allora inizia veramente a seguirti”. Quanto basta per dire che quello del maniscalco è un mestiere che “passa dalle mani ma soprattutto dal cuore”, lo stesso che lui ci ha messo quando, in un periodo familiare difficile, è riuscito, contro ogni previsione, a qualificarsi nel mondiale di mascalcia a Calgary, in Canada.
Oggi guardandosi indietro, oltre i numerosi riconoscimenti, tra le istantanee che ritornano c’è quella dello stallone Superbo, scattata poco prima che morisse a Piacenza. Lui è il cavallo dal mantello grigio, che Giuseppe ha ferrato per più di venti anni, che ha visto crescere come un figlio e per il quale ha pianto. A distanza di anni dalla sua scomparsa quella foto suscita ancora emozioni forti come l’immagine di Bertil, il costosissimo cavallo di razza di una scuderia milanese che ha aiutato per superare una crepa sanguinante allo zoccolo che non riusciva a sanarsi. Bertil dopo sei mesi di ferrature e cure ha ripreso a gareggiare e vincere, da campione, con l’orgoglio di Giuseppe che nel trattare il cavallo ha messo in campo le conoscenze eredità degli studi ma anche gli insegnamenti acquisiti nelle botteghe dei vecchi maniscalchi, frequentate nei primi anni di attività.
I mestieri, da sempre, si sa, passano anche dall’esperienza tramandata e nel suo caso quest’ultima si è tradotta nel valore del rispetto dell’animale e del supporto che le mani di un maniscalco possono dare per migliorarne la qualità della vita. Le costanti in un mondo come quello della mascalcia che, da nord a sud, negli anni ha subito una profonda mutazione.
Il “ferracavalli” di un tempo riporta alle antiche botteghe di paese come quella, risalente a fine dell’ 800, appartenuta al maestro Natale Fina a Castelbuono, paese dell’entroterra in provincia di Palermo, conosciuto anche come il veterinario. All’epoca, infatti, erano i cavalli a raggiungere il maniscalco e non il contrario come accade oggi e spesso lo si faceva anche per ricevere assistenza veterinaria. Periodi storici nei quali ogni borgo aveva il proprio ferracavallo in un mondo che lavorava e si muoveva principalmente su spinta animale. I maestri di allora erano anche fabbri di precisione che lavoravano tanto per gli animali destinati ai lavori pesanti quanto per quelli da strada.
La definizione di artista arriva da quelle realtà rurali nelle quali gli artigiani seguivano tutte le fasi della ferratura a mano: tagliavano la verga, la piegavano su misura a caldo e la applicavano, non prima di avere bilanciato gli zoccoli e valutato andatura e appoggio di ogni cavallo. Il lavoro di precisione al quale spesso si aggiungeva quello di cura con l’utilizzo dell’arnese per la castrazione, la levigatura dei denti e la toilettatura.
Di quelle storie di maestri del passato oggi rimane un ricordo sbiadito, le emozioni che accompagnano un mestiere intramontabile continuano invece a vivere nelle testimonianze come quelle di Giuseppe Gandini e nei luoghi di una memoria che riporta agli anelli sui muri e la forgia dell’antica bottega dismessa del borgo delle Madonie, nel cuore della Sicilia.
Lì dove la tecnologia non potrà mai arrivare perché messa al cospetto di un mestiere nel quale l’occhio e l’intuito umano marcano ancora la differenza. Difficilmente, è la convinzione di Giuseppe, l’intelligenza artificiale potrà replicare le “malizie” che i vecchi artigiani trasferivano agli apprendisti, legate alle andature e ad altri particolari del cavallo. I segreti del mestiere che non possono prescindere dalla componente umana, quella che passa dal legame antico con i cavalli.
A ritornare sono ancora una volta quegli sguardi capaci di parlare, perché, come dice Giuseppe, “l’animale ci mette sempre il cuore, nel caso dell’uomo non è così scontato e, quindi, per non sbagliare, è sempre meglio stare dalla parte del cavallo”.

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