Teatro

Anatomia di un matricidio

Il matricidio di Oreste come esempio dell’inspiegabilità del destino e dell’assenza nella storia di ogni intervento divino

17 Agosto 2025
Tra i monti dell’Appennino romagnolo, quasi fossero le montagne che incombono su Argo, giace su una barella d’ospedale un ragazzo, le braccia pendule, la camicia macchiata di sangue, gli occhi chiusi, inerte, svenuto o morto, come al rientro da una lotta bestiale. Accanto a lui, irrequieta, il volto segnato da notti insonni, una ragazza, che sembra esplodere per lunga rabbia e dure sofferenze in una crisi riparatrice che togliendole la vita la liberi da un insopportabile dolore. E di fatti dalla sua bocca esce una cupa invocazione alla Notte, a questo sembiante provvisorio della morte, che, come la morte, ci libera dagli affanni. La ragazza si muove circospetta intorno alla barella e un interlocutore invisibile racconta il lungo peso di irrimediabile infelicità che da tempi lontani, già nel contatto con gli dei, ha devastato la sua famiglia, disordinato i più intimi affetti, deturpato ogni vincolo di fratellanza e di pietà filiale, devastato ogni sentimento di amore.
Siamo davanti alla reggia di Argo. Il ragazzo, svenuto o morto, è Oreste, la ragazza che accusa d’indifferenza gli dei, è Elettra, sua sorella. Hanno appena ucciso la madre Clitemestra e il suo amante Egisto. Per vendicare, come aveva ordinato l’oracolo di Apollo a Delfi, l’assassinio di Agamennone, Clitemestra lo assale nel bagno, lo avvolge con una rete, perché non possa difendersi, e lo scanna. Ora che scannata è la madre, Oreste non regge il peso del matricidio. Già nell’Elettra, la tragedia la cui azione è appunto il compimento del matricidio, Oreste si era dimostrato restio a compierlo, assalito da mille dubbi, da terribili sensi di colpa. In quest’altra tragedia, Oreste, Euripide porta sulla scena le angosce dei fratelli matricidi. Aristofane prende in iro i prologhi narrativi di Euripide, la noia di riassunto scolastico per gli spettatori, che, secondo Aristofane – ma lo fa dire a Eschilo – è uno dei punti deboli della drammaturgia euripidea, al punto che in ogni momento del prologo, quando si enumerano le vicende che hanno preceduto l’azione vera e propria della tragedia, si può inserire la frase “e ruppe la boccetta”. “Quando sulla rocca d’Argo giunse Atreo”, comincia a declamare Euripide: “e vide le mura del palazzo …”, “ruppe la boccetta!” lo interrompe subito Eschilo. Apollo acconsente: “Nei tuoi prologhi”, dice ad Euripide: “la boccetta ci sta ene come l’orzaiolo sugli occhi”. Invece Aristofane si sbaglia. I prologhi di Euripide – come del resto anche lo scioglimento finale dell’azione – sono tessere indispensabili che inquadrano il mosaico degli avvenimenti. Come se la cornice rappresentasse la tradizione, e poi l’azione della tragedia, una critica, o la smentita integrale proprio della tradizione.
Si vuole che Euripide provasse simpatia per le teorie di Anassagora. Certo la sua visione del divino non è, come con facile illuminismo, si pensava, di dissacrazione integrale del divino nel mondo, ma di una nuova visione del divino. Guarda caso, due tragedie diversissime, come Alcesti e Le baccanti finiscono con le stesse parole: “Molte sono le forme del divino” cantate dal coro come sintesi della storia rappresentata. Tragico non è più solo l’insolvibilità del conflitto eroico, l’ingiustizia umana, in Eschilo, la solitudine dell’uomo in Sofocle, ma è tragica già la stessa condizione umana, perché dolore e gioia sono in sé inspiegabili, non hanno causa, e inspiegabile è anche la soluzione mortale o di felicità del conflitto.  A essere inspiegabile è la vita stessa, di cui la morte è solo un accidente.
La tragedia più antica che ci sia restata di Euripide è Medea, Oreste è una tragedia tarda, rappresentata nel 408 a. C., a pochi anni dalla disfatta di Atene, nella guerra contro Sparta. Ed è la tragedia di una disfatta. Ma già in Medea, il bellissimo prologo della Nutrice, “Non avesse la nave Argo mai sorpassato le Simplegadi!”, già svolge questa funzione di cornice di avvenimenti inspiegabili. Come può essere spiegabile l’amore di Giàsone mutatosi in avversione? E perché si ostina invece Medea ad amarlo? L’infanticidio non è solo una vendetta, ma anche, per quanto possa apparirci strano, immorale, “bararo”, un atto di difesa, di protezione, evitare ai bambini una vita da schiavi. Senza contare il piacere, questo sì, e molto greco, di vedere soffrire a un altro lo stesso dolore che la sua azione ha provocato in chi si vendica. Questo, non è solo euripideo, ma profondamente greco, anche se può ripugnare a una coscienza educata cristianamente: ma i greci non erano cristiani.
Nell’Elettra, Sofocle fa dire all’infelice figlia di Agamennone: “Chi soffre ciò che io soffro, ha diritto di vendicarsi”. La vendetta non è una passione, ma un diritto. Da cui si esce, secondo Eschilo, solo affidando alla comunità la soluzione del conflitto. La Legge supera le differenze, uguaglia i dolori. E la Legge è, prima di tutto, una regola divina, l’ordine della Giustizia, Dike, che Zeus stabilisce prima di tutto tra gli stessi dei e poi nel cosmo, e dunque ance agli uomini. M è proprio quest’ordine che già si sfascia in Sofocle. Edipo che dice: “Sì, ho ucciso mio padre, mi sono congiunto con mia madre, e dunque sono colpevole. Ma non lo sapevo e dunque chiedo agli dei: perché io?” Edipo a Colono. Il termine a cui giunge Sofocle, già quasi vicino alla inspiegabilità del destino che troviamo in Euripide. E dunque, in questo bellissimo Oreste, assistiamo al disorientamento che ci coglie davanti all’inspiegabilità delle azioni umane. L’Oreste euripideo già soffre tutte le inquietudini dell’Oreste moderno, è già quasi Amleto, o l’Oreste di Goethe, di Alfieri, l’Ori di O’Neill.
A questo ragazzo tormentatissimo, disperatissimo, che ha compiuto un delitto che non voleva compiere, presta la sua bellissima maschera di giovane di oggi, agile, attraente, consumato da una sofferenza indicibile che ci prova a liberarsene dicendola, Marco Imparato, Alessandra Fallucchi è sua sorella Elettra. Alessandro Machia ha immaginato una scena vuota – alcuni pannelli nel fondo, da cui entrano ed escono gli attori – e tutta l’azione si affida alle parole e ai esti dei personaggi. La scarna scena disegnata da Annalisa Di Piero e le luci impostate da Giuseppe Filipponio, insieme ai suoni ora minacciosi ora suadenti di Giorgio Bertinelli, sono il quadro in cui si scandisce l’irrisolvibile vicenda. Giulio Forges Davazanti, un aitante e commosso Pilade, Claudio Mazzenga è Menelao, Silvia Degrandi interpreta Elena, Alessia Ferrero è Ermione. Completano il cast Tommaso Garrè nel doppio ruolo del Messaggero e del Frigio, e Valeria Cimaglia nel ruolo del Coro. Pino Quartullo è l’ostinato Tindaro e l’improbabile Apollo, quasi una comica caricatura del divino, al quale però è affidato lo scioglimento dell’intricata vicenda. Che vero scioglimento non è: gli uomini sono comunque lasciati alla loro solitudine di naufraghi di un naufragio che non hanno voluto. Si esce dall’arena pieni di domande. Risposte non se ne sono ascoltate. Ma questo è il compito della tragedia, del teatro, porre domande, impostare problemi. Al pubblico la fatica di cercare e di trovare risposte, soluzioni, se ce ne sono. Una dramma, un romanzo, una poesia che diano risposte non sono né dramma né romanzo né poesia. Nemmeno il cattolico Alessandro Manzoni offre risposte, nel suo teatro, nel suo romanzo. “Al mondo non resta che far torto o patirlo” dice Adelchi morente. Potrebbe essere la battuta di un personaggio di Euripide. E un umile soldato si chiede nell’Elena di Euripide, quando vede che a Troia non c’è andata nessuna Elena, ma solo il suo fantasma: “E noi, la morte, la sofferenza di questi lunghi anni per che cosa? Per un fantasma?”  Elena risponde, subito: “E per che cos’altro voi uomini fate le guerre?” Atene era in guerra contro Sparta. Elena è spartana. E una Spartana spiega agli Ateniesi che le guerre sono inutili, si combattono per fantasmi.
Lo spettacolo è stato visto all’Arena Plautina di Sarsina. Di solito si assiste a divertenti commedie. Questa volta è stata una tragedia del più tragico dei drammaturghi, come Aristotele definisce Euripide. Un tragico che parla al pubblico di sempre. Perché sempre la storia degli uomini sembra una storia dissennata.  E mai come oggi che si combattono guerre che possono prevedere la scomparsa di un popolo. Troia non fu un evento isolato. Se ne perpetua da millenni la dissennatezza.
Lo spettacolo gira per l’Italia: in questo mese di agosto il 18 sarà a Locri, il 19 a Lecce, il 20 a Molfetta, il 30 al Festival di Tindari. Dal 23 ottobre si potrà vedere al Teatro Arcobaleno di Roma.
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