
Teatro
Biennale, gli uppercut di Carolina Bianchi e la danza di Sasha Waltz
VENEZIA _ Come un uragano. Irruento, potente, definitivo. Arriva diretto come un uppercut. Un montante tirato dal basso verso l’alto: se ha la carica giusta, finisci a terra. Presente George Foreman? Big George, così era chiamato, aveva uno dei pugni più potenti della boxe… Con un uppercut destro, il 22 gennaio 1973 a Kingston, mandò al tappeto Joe Frazier dopo soli due minuti del primo tempo dell’incontro per la corona iridata. Il linguaggio da boxeur si addice perfettamente all’effetto rilasciato dallo spettacolo della brasiliana Carolina Bianchi, con il secondo capitolo della sua “Trilogia Cadela Forca”intitolata “Brotherhood”. Spettacolo molto atteso e di punta della Biennale Danza 2025, diretta dal coreografo Wayne Mac Gregor che ha allestito un programma di tutto rispetto, dal 17 luglio al 2 agosto: un formidabile centro con la geniale Twyla Tharp, insignita con il Leone d’oro e, appunto, la brasiliana di Porto Alegre che ha ritirato il Leone d’argento per le carriere emergenti. Tutti e due “Myth Makers”, cioè costruttori di Miti. Che, secondo Mac Gregor, aiutano a esprimere paure, aspirazioni e i misteri della vita. “In tempi di disordini o di transizione… l’umanità spesso cerca nuove narrazioni per far fronte all’incertezza e ispirare speranza”. I miti possono emergere in diversi campi della cultura e dell’arte.
“Attraverso la loro inspiegabile ricerca creativa -afferma Mac Gregor – gli artisti sono sempre stati i creatori di miti del proprio tempo, ed è attraverso la loro eredità che ci addentriamo nelle profondità del loro/nostro io interiore, articolando verità universali che risuonano attraverso i tempi e le culture”. In termini più chiari questo accade, nel caso del teatro e della danza, per capolavori che hanno lasciato un segno nel tempo in cui sono stati mostrati e lasciato una lunga eco, come è il caso dello splendido “Diabelli” del 1998 proposto dalla compagnia di Twyla Tharp al Teatro Malibran per celebrare i sessanta anni di attività, in tandem con la novità assoluta “Slacktide” su musica di Philip Glass. Ma getta anche i suoi semi segnando le coscienze e l’umano sentire di uomini e donne anche in opere coinvolgenti, spiazzanti e radicali quale è appunto “Brotherhood” di Carolina Bianchi.
Sgomberiamo subito il campo. Non si tratta di danza come farebbe supporre il tipo di rassegna, bensì di teatro, che ha comunque al centro del suo focus il corpo. Una forma di teatro postdrammatico in cui si usano parole (tante, tantissime), performance, immagini e poesia. In “Brotherhood” si va subito al nocciolo. E la citazione della boxe qui non è poi così fuori luogo. Lo spettatore o chiunque assista allo spettacolo di duecentoventi minuti si trova al centro del ring. Accanto, attorno, sopra, sotto, davanti e dietro volano senza tregua i colpi di Bianchi che mira al suo obiettivo. Come una mission. E’ stato così sin dall’inizio. A cominciare dall’allestimento iniziale che ad Avignone ha dato il via nel 2023 alla Trilogia e, programmato con lungimiranza in Italia, lo scorso anno dalla Triennale di Milano: “Capitolo I. La Sposa e Buonanotte Cenerentola” (“ The Bride and the Goodnight Cinderella).
In questo primo allestimento Carolina Bianchi assume in scena una droga da stupro (la “Buonanotte Cenerentola” diffusa in Brasile) per mostrare in diretta i suoi effetti al pubblico. La stessa Carolina Bianchi è stata una vittima e sul palco rievoca la propria esperienza personale. Un momento maledetto che l’artista ha vissuto in comune con migliaia di donne drogate e abusate. Tutto questo in virtù di una impunità celata dietro riti e comportamenti sedimentati da secoli di patriarcato che hanno dato al genere maschile il potere di seviziare e stuprare, dal tempo antico ai nostri giorni. Documentato per altri versi anche in pagine di opere come le “Metamorfosi” di Ovidio fino alla recente cronaca nera, vedi in Francia il caso di Gisèle Pelicot.
A dare sostanza e costruire teatralmente puntigliosamente la seconda tappa di questa trilogia è la straordinaria compagnia brasiliana, tutta maschile, di Cara de Cavalo. In simbiosi con loro Carolina – che porta in scena il momento del risveglio e della presa di coscienza – ha scoperto e ricostruito la trama su cui ha indagato (500 pagine di lavoro, così afferma la teatrante ormai da tempo stabilitasi in Olanda. E che vedranno prossimamente luce in una pubblicazione che, oltre al portoghese, sarà edita anche in francese). Più che uno schema “Brotherhood” è una vera “fratellanza”. Una rete fittissima costruita grazie a complicità e protezioni, mutua assistenza. Carolina spiega i meccanismi e mostra come pochi maschi ne siano estranei. Iniziando dal mondo dell’arte e del teatro che a loro volta sono dei luoghi di potere in cui le donne vengono regolarmente umiliate. Attenzione: non è solamente di uomini. Molte donne fanno parte di questo ingranaggio nelle vesti di collaboratrici o addirittura rendere più facile la conquista della preda (vedi a questo proposito la vicenda del finanziere americano Jeffrey Epstein e della sua fidanzata Ghislaine Maxwell recentemente tornata con prepotenza d’attualità mediatica).
Carolina Bianchi usa l’intero palcoscenico per mandare in onda spezzoni di immagini e come spazio di decostruzione drammatica con proiezioni di live acting raffreddati in icone o semplice stop teatrali. Paradossalmente questa messa in scena suscita a tratti il ricordo dello storico allestimento de “Il potere della Follia teatrale” di Jan Fabre, artista accusato nel 2018 da alcuni performer della compagnia Troublyn di molestie, violenze e molestie sessuali. Il 30 aprile 2022 è stato dichiarato colpevole di bullismo, violenza e comportamenti sessuali indesiderati e condannato a 18 mesi di reclusione. Non è forse un caso paradigmatico di quanto messo in evidenza dalle denunce di Bianchi? La dimostrazione cioè che occorra guardarsi anche da quelli che vediamo come insegnanti e maestri e invece hanno comportamenti scandalosamente in contrasto con quanto dichiarato in scena? Il potere come sistema rende più facile e praticabile la violenza sessuale. Carolina Bianchi rivela i codici di questo sistema e ne mette a nudo i rapporti impensabili.
Così in una lunghissima intervista in presa diretta con un ipotetico regista d’avanguardia (in cui qualcuno ha voluto vedere Milo Rau), Carolina Bianchi assume il ruolo di cronista puntigliosa in una seduta fiume in cui cerca di mettere in difficoltà il regista con insistenti domande. Lo provoca direttamente domandandogli se per caso avesse voglia di fare l’amore con lei. L’atto sessuale tra i due assume contorni grotteschi con Bianchi a cavalcioni del regista mentre mostra sul suo volto, nello schermo dietro di lei, segni esagerati di soddisfazione con smorfie da comica finale. Gesti di sfida e canzonatura in un contesto in cui domina un diffuso senso d’astrazione e incertezza. Dove tutto, da un momento all’altro, potrebbe venire spazzato via da un tifone. Un colpo di pistola dietro le quinte annuncia il suicidio del regista d’avanguardia, salutato con distacco e assenza mentre il palcoscenico viene attraversato in ogni lato dai performer di Cara de Cavalo (Rodrigo Andreoli, Josè Artur, Tomàs Decina, Lucas Delfino, Flow Kountouriotis, Chico Lima, Rafael Limongelli, Wido Meyer).
C’è anche spazio per momenti di ironia, mentre si ascoltano hit sixty come “Happy Together” dei Turtles e alla domanda esistenziale “Chi sono io?” irrompe il brano dance del 1997 “Let a boy cry” di Gala. Assai popolare presso la comunità gay, ebbe larga diffusione in molti Paesi europei e in Sudamerica. Fu anche uno dei maggiori successi della cantante italiana che così come era apparsa all’improvviso nella scena pop scomparve dall’orizzonte discografico senza lasciare traccia. Non manca nell’imponente allestimento anche un carro allegorico intitolato “Dirty Pathos” nella pura tradizione carnevalesca di Porto Alegre, città d’origine dell’artista brasiliana.
Carolina Bianchi, anche se mantiene il suo baricentro creativo nella scrittura, dichiara infatti e sempre con forza il suo amore verso il teatro.
Forse non possiede la raffinatezza della teatrante conterranea Christiane Jathay, che ha appena presentato in Italia “Julia”, una versione originale di “Signorina Julie” di Strindberg, un talento unico nel mescolare teatro, cinema e performance ma CarolinaBianchi, in cambio, possiede tanto della rabbia di Sarah Kane che omaggia costantemente.
“Non c’è niente che non si possa rappresentare in scena: affermare di non poter raccontare qualcosa, dire che non se ne può parlare, è un atto di ignoranza terribile. Volevo essere sincera fino in fondo sull’abuso e sulla violenza. Tutta la violenza presente nel testo è stata inserita attentamente nel plot ed è stata strutturata secondo un punto di vista drammaturgico che mi ha permesso di dire quello che volevo sulla guerra. La logica conclusione dell’atteggiamento che produce un caso isolato di stupro in Inghilterra è la violenza etnica in Bosnia. E la logica conclusione di come la società si aspetta che gli uomini si comportino in guerra”.
Così Sarah Kane raccontò a proposito della sua prima opera “Blasted”. Quanto di questa affermazione è parte integrante del bagaglio esistenziale ed intellettuale di Bianchi... Ma pure, come potrebbe apparire evidente per la stessa Sarah Kane, anche per Bianchi al fondo sembra emergere in maniera magari confusa e quasi nascosta un grande bisogno d’amore.
La Danza di Sasha Waltz
Cinquantatrè cellule musicali, altrettanti “riff” o melodie che vengono suonate in ordine dai musicisti i quali mantengono anche una libertà di esecuzione nel ripetere e improvvisare. Potrebbe ricordare il jazz ma in questo caso l’improvvisazione è di fatto guidata. Ed è soprattutto il primo pezzo musicale minimalista della storia. E’ “In C” – cioè musica in chiave di Do – di Terry Riley che lo compose nel 1964. La geniale coreografa tedesca Sasha Waltz (ma quando avrà il suo Leone d’oro?) ha preso questa musica tout court (nel 2021) e ne ha costruito un capolavoro che in parallelo diventa un percorso di corpo unico con la danza. Sono altrettante cinquantatrè figure coreografiche quelle disegnate da Sasha Waltzparte di un dialogo stretto costruito per moduli, tra danza, musica e spazio. “In C” è la sorpresa offerta da Biennale Danza al Teatro le Tese all’Arsenale proprio nei primissimi giorni del festival: un viaggio dentro un’opera che unisce assieme musica e danza contemporanea. Entrambi capolavoro di due artisti aperti all’innovazione e alla ricerca. “In C” è un’opera che rompe le convenzioni e rivoluziona la scena musicale e altrettanto accade con la danza della Waltz. Opera che la coreografa tedesca mise a punto nel 2021 originalmente con i danzatori Davide Di Pretoro, Edivaldo Ernesto, Melissa Figueiredo, Hwanhee Hwang, Annapaola Leso, Michal Mualem, Zaratiana Randrianantenaina, Aladino Rivera Blanca, Orlando Rodriguez, Joel Suárez Gómez e che a Venezia è stata danzata egregiamente dai giovani di Biennale College Danza (Davide Cesari, Francesca Crisci, Marie Da Silva, Alice Del Frate, Gerard Jover Gutiérrez, Oriol Jover Gutiérrez, Youngin Kim, Kasia Kuzka, Te Ma, Iván Merino Gaspar, Alonso Nuñez Quiros, Simone Orlandi, Aino Päivike, Tong Pan, Maurizio Paolantonio, LaMonte Sadler). Accompagnati e guidati dai precisi musicisti dello Syntax Ensemble (Anna D’Errico, al piano, Maruta Staravoitava, flauti, Marco Ignoti, clarinetti, Francesco D’Orazio, violino, Fernando Caida Greco, violoncello, Dario Savron, percussioni, Maurilio Cacciatoreelettronica e Pasquale Corrado, sintetizzatori e direzione).
Come accade per i musicisti anche i danzatori hanno linee di movimento e pattern di riferimento e, contemporaneamente, libertà di improvvisazione. I suoni in loop e i movimenti ripetuti hanno la facoltà di provocare l’affascinante sensazione di entrare in trance. Si seguono il tempo e le linee musicali come un filo d’Arianna che viene ripreso nelle figure dei danzatori. Sullo schermo le luci color pastello ideate da Olaf Danilsen fanno da pendant con i colori pastello di maglie e costumi dei danzatori. E’ come fluttuare morbidamente nello spazio mentre la musica risuonando all’interno dei corpi spinge lo sguardo ora sui piedi di un danzatore che velocemente intreccia nuovi percorsi o le braccia che indicano direzioni in diagonale. I danzatori si sfiorano e viaggiano quasi fossero essi stessi cellule musicali. Monadi nel cielo. I colori delle luci proiettate sui fondali sono campiture stese su una tela di pittore. Arancio, indaco, bluette, rosso… Un attimo si fotografa il corpo in fuga di una danzatrice per perdersi un secondo dopo e diventare una massa colorata che si muove nell’aria come farfalla al tramonto. “In C”, musica e danza, regalano uno straordinario climax. Per un’ora è come se si fosse stati altrove. In una dimensione da sogno. Come un salto nel vuoto. Emozionante.
Il Festival
Ma la Biennale Danza vuole essere, ed è giusto che sia, soprattutto luogo privilegiato per scoprire, conoscere, studiare chi lavora con spirito di ricerca dentro una disciplina teatrale che in questo momento ha una presenza molto forte nella spettacolarità del contemporaneo. Così la diciannovesima edizione diretta dal coreografo inglese Wayne Mac Gregor, ha inteso presentare nel programma tante novità: otto prime mondiali, 7 europee e 5 italiane. 160 gli artisti coinvolti. Ecco così l’attenzione alle nuove tecnologie applicate alla danza con la prima europea di “U>n>i>t>e>d” degli australiani Chunk Move diretti da Anthony Hamilton. Ambientazione post industriale popolata da cyborg con una “muscolatura artificiale” che ne moltiplica forza, agilità e velocità.
La violinista e coreografa canadese Virginie Brunelle e l’omonima compagnia sono gli autori di “Fables” dedicato ai prodomi della liberazione femminile. Il duo formato da Courtney Garratt e Jacob Samuel vincitore dei bandi internazionali hanno presentato la nuova coreografia “A Good Man is Hard to” di Bullyache. Per la parte più sperimentale “On the Other Earth” esperienza tra danza, arte e tecnologia che ha messo assieme lo stesso Mac Gregor con Jeffrey Shaw, il filmaker Ravi Deepres e Theresa Baumgartner. Installazione immersiva e interattiva che “avvolge il pubblico nello schermo “nVis”, il primo schermo cinematografico con tecnologia sensoriale a 360 gradi”. Tornato a Venezia, il Tao Dance Theatre con “Numerical Series 16 e 17”, Akash Odedra Company, spiritualità sufi, versi della tradizione lathak in “Songs of the bulbul”. Il collettivo di Antonio de Rosa e Mattia Russo, con base a Madrid nella prima nazionale di “Simulacro”. I danzatori di Biennale College sono i protagonisti di “Coexistence” di Wang Lee e la coppia Tamara Fernando e Matthew Totaro con “AI’M”. Yoan Bourgeois con Patrick Watson hanno fuso danza e acrobatica. Il Nuovo Balletto di Toscana in “Sisifo felice”, di Paolo Girolami. Gran finale con William Forsythe e Narcos Moureau con “Friends of Forsythe”. Moraue la Veronal si sono ispirati al mito universale della morte e della rinascita in “La Mort i la Primavera”.
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