Teatro

Il lutto si addice ancora a Elettra

Il Teatro Nazionale di Genova apre la stagione con un importante allestimento del capolavoro di O’Neill diretto da Davide Livermore

22 Ottobre 2025

Genova. Ci sono spettacoli dei quali è difficile scrivere criticamente perché, nella loro sostanza concettuale e nella loro tessitura formale, raccolgono professionalità e qualità artistiche tali da rendere quasi automatica la loro buona riuscita. È questo sicuramente il caso de “Il lutto si addice a Elettra”, capolavoro di Eugene O’Neill, che il regista e direttore artistico Davide Livermore, con una nuova traduzione operata da Margherita Rubino, ha scelto di allestire per aprire la stagione del Teatro Nazionale di Genova. Il cast degli attori e delle attrici è di straordinaria qualità: Paolo Pierobon Ezra Mannon, Elisabetta Pozzi Christine Mannon, Linda Gennari Lavinia Mannon, Marco Foschi Orin Mannon, Aldo Ottobrino Adam Brant, Davide Niccolini Peter Niles, Carolina Rapillo Hazel Niles. Assolutamente di qualità e rodato è anche l’ensemble che cura l’allestimento: dallo stesso Livermore per le scene a Gianluca Falaschi per i costumi, da Daniele D’Angelo per le musiche ad Aldo Mantovani per il disegno luci. Veramente tanta roba. Anche in profondità e nel rapporto dialettico con la tradizione del teatro italiano e con l’antecedente diretto dello spettacolo realizzato da Ronconi nel ‘97: si pensi infatti a Elisabetta Pozzi che nello spettacolo ronconiano interpretava il ruolo Lavinia Mannon, con Mariangela melato che interpretava Christine Mannon la moglie/madre fedifraga e assassina, mentre in questo allestimento è lei a incarnare Christine con Linda Gennari nel ruolo di Lavinia. Un passaggio di consegne strepitoso tra attrici che sembrano fare della consapevolezza, umana prima che artistica, la cifra rigorosa e sapiente del loro lavoro. Notevoli e piene di fascino sono sembrate anche le interpretazioni di Pierobon e di Marco Foschi. Detto questo, ci si potrebbe anche fermare: si tratta di uno spettacolo importante da quasi tutti i punti di vista. Però a teatro non è mai detto che la somma degli addendi corrisponda automaticamente al valore che ci si aspetta. Bisogna andare a fondo e cercare di capire come s’incastrano i vari elementi e secondo quale alchimia riescono o meno a comunicare. Entrano in gioco molti fattori: la profondità, la verità e la necessità dell’ispirazione, il concreto contesto temporale e territoriale e ancora rilevanti variabili politiche che il regista deve riuscire a leggere, “processare” e lasciar vivere nel suo lavoro. In questo caso è quest’ultimo aspetto che sembra prevalere: Livermore ha definito negli anni, spettacolo dopo spettacolo, una sua cifra registica molto riconoscibile: lineare, potente, assertiva. Una cifra registica che spesso si lega ad atmosfere primo-novecentesche e che può anche non convincere, ma non è sciatta e appare costantemente posta al servizio di un’idea di teatro pubblico adulto, politico, concettualmente accessibile e concretamente democratico. Val la pena ripeterlo: un teatro pubblico concretamente democratico. Nella sua regia siracusana dell’Orestea di Eschilo (del 2021 e 2022), l’idea centrale era l’interrogazione – politicamente sensibile in tempi di populismo e messa in discussione dei cardini della democrazia – sulla via d’uscita politica, democratica e costituzionale, dopo l’esplodere dell’odio civile nella stagione terminale del fascismo. Era un’idea che rinnovava la trilogia eschilea e la rispettava senza tradirne o banalizzarne la profondità concettuale. Era un’idea che il pubblico del Teatro Greco di Siracusa esperiva tangibilmente e che pretendeva, per essere compresa appieno, una presa di posizione politica da parte degli spettatori. Questo allestimento del dramma di O’Neill, se possibile, cade in una situazione politica ulteriormente problematica: l’attacco alla democrazia oggi non è portato solo sul piano dei cardini strutturali del sistema democratico (magistratura, sistema istituzionale, scuola, stampa, apparati di sicurezza e difesa) ma, e ancora più profondamente, sul piano della cultura antifascista, democratica e storica diffusa e della conseguente tenuta morale dei cittadini. Non è un caso che l’ambientazione storica di questo allestimento sia collocata esplicitamente proprio (e ancora una volta) negli anni ’40 quando Salvo Randone interpretava Orin Mannon nello spettacolo diretto da Giulio Pacuvio. Tutto l’intrecciarsi velenoso dei rapporti tra i Mannon, nel fondo del quale s’intravvede l’archetipo dell’intrecciarsi mortifero dei rapporti tra gli Atridi, non si scarica più su un possibile scioglimento religioso e/o politico (Atena fonda l’Areopago e decide l’assoluzione di Oreste), ma su una presa in carico morale, responsabile e consapevole, ben oltre la psicanalisi e la guarigione della psiche, da parte di Lavinia, di tutto il male che avvolgeva da generazioni la sua famiglia e che si sarebbe continuato a propagare se qualcuno non avesse deciso di pagare il prezzo dei tradimenti e dei delitti. Pagare il prezzo: personalmente e nel rispetto di una verità che, al di là delle documentazioni cartacee, si sarebbe perduta definitivamente se non fosse più stata incarnata (Lavinia brucia il documento testimoniale redatto dal fratello, ma decide di restare in vita e di proteggere Peter). Ecco il nodo politico che assegna spessore di necessità a questo lavoro: come si risponde, oggi, al tentativo di tradire la verità sostanziale della nostra vicenda democratica e di riscrivere la storia? La soluzione al contemporaneo tradimento della democrazia è l’accettazione completa del dolore e del male della vicenda storica e l’assunzione di responsabilità personale, prima che politica, rispetto a quel male. Non è l’Orestea di Eschilo, non è l’Orestea messa in scena da Livermore a Siracusa appena qualche anno fa, non è il dramma novecentesco di O’Neill, ma è una rivisitazione seria, meditata, contemporanea e politicamente avvertita di un capolavoro che ci induce a essere consapevoli del male e capaci di riconoscerlo e respingerlo con coraggio e impegno personale sul piano morale, politico e culturale. È ciò che ci si deve legittimamente aspettare, e che si dovrebbe pretendere, da un grande teatro pubblico italiano nel 2025.

 

Il lutto di addice a Elettra di Eugene O’Neill,

Teatro “Ivo Chiesa” dall’11 al 26 ottobre 2025. Traduzione e adattamento di Margherita Rubino. Regia di Davide Livermore. Personaggi e interpreti Ezra Mannon Paolo Pierobon, Christine Mannon Elisabetta Pozzi, Lavinia Mannon Linda Gennari, Orin Mannon Marco Foschi, Adam Brant Aldo Ottobrino, Peter Niles Davide Niccolini, Hazel Niles Carolina Rapillo. Scene di Davide Livermore. Costumi di Gianluca Falaschi. Musiche di Daniele D’Angelo, Luci di Aldo Mantovani. Regista assistente Mercedes Martini. Progettazione trucco e parrucco di Bruna Calvaresi. Produzione Teatro Nazionale di Genova, in coproduzione con Centro Teatrale Bresciano per il 2026. Crediti fotografici di Federico Pitto.

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