Teatro
Il teatro, un gioco meraviglioso
Un dramma, una commedia, si chiama in inglese play, in tedesco Spiel, gioco, e recitare to play, spielen giocare. Riflettiamoci, noi italiani, pubblico sempre troppo serioso. O troppo ridanciani.
Rispondendo, su Facebook, al commento di un amico, riguardo al Lohengrin messo in scena al Teatro dell’Opera di Roma da Damiano Michieletto, mi è balzato in mente che forse una parte del pubblico di oggi, soprattutto tra chi ha passato i cinquant’anni, non crede più alla magia, alla fiaba del teatro. E soprattutto, per i più giovani, che da bambini non hanno giocato più a nascondino, a guardia e ladri, a ricreare un western nel giardino di casa, perché si sono divertiti con i videogiochi. Ora, invece, una gran parte dei registi teatrali di oggi si diverte ancora a reinventare il teatro come puro gioco della fantasia. Perfino come gioco di bambini. E cercare perciò verosimglianza, aderenza alle didascalie del testo in un gioco è come pretendere coerenza in una filastrocca:
Ambarabà cocò
tre galline sul comò
che facevano all’amore
con la figlia del dottore.
Non che manchi di coerenza il gioco dei bambini, o il teatro. Ma non è la coerenza del realismo, della corrispondenza tra realtà e finzione. Chi cerca realismo, corrispondenza tra finzione e realtà nel teatro di oggi resterà sempre deluso, perché invece dovrebbe ridiventare bambino e lasciarsi perdere nel piacere di un gioco. Senza contare che all’inizio del secolo scorso c’è stato qualcuno che si chiamava Pirandello. E secoli prima Calderón de la Barca scrive El gran teatro del mundo, Shakespeare La Tempesta o quella intricatissima e misteriosissima commedia che s’intitola As you like it. Ciò non significa, certo, trascurare o tralasciare quanto di complesso, di artificioso e perfino d’intellettualistico possa esservi in una rappresentazione teatrale, e prima ancora nel testo che funziona da supporto alla messa in scena. In fondo anche parlare in versi, o cantare, non è un atto molto realistico. Ma il fatto è che perfino la complessità, l’artificio, l’intellettualismo sono assunti solo come gioco, solo perché gioco. O Aristofane non avrebbe mai scritto Gli Uccelli. L’amico mi confessa di detestare Michieletto, da quando ha visto la sua messa in scena del Rigoletto a Roma. E allora io comincio a obiettargli alcuni punti.
“Ma come si fa a detestare Michieletto? ha la verginità di chi racconta fiabe. E del resto il suo lavoro di teatrante comincia mettendo su fiabe per i bambini. Quel Rigoletto nella meravigliosa cornice del Circo Massimo, le rovine del palazzo imperiale a sinistra, a destra i giardini dell’Orto Botanico, era stupendo. Oggi non abbiamo più i buffoni di corte, ma sì i giostrai. E Rigoletto è un giostraio. Tra l’altro per chi legga il tedesco, consiglio, se non è stato letto, di leggere il breve saggio sulla messa in scena dei drammi wagneriani (ma in realtà è un discorso su come si fa oggi teatro) che Dahlhaus ha inserito nella sua monografia sui drammi musicali wagneriani: Die Musikdramen Richard Wagner, Hannover, Erhard Friedrich Verlag, 1971. Esiste comunque anche la traduzione italiana ripubblicata da Astrolabio (era un titolo della Marsilio): I drammi musicali di Richard Wagner. Anni fa, e precisamente nel 2009, a Venezia, al teatro La Fenice Michieletto mise in scena il Roméo et Juliette di Gounod, opera deliziosa, ma per goderne bisogna dimenticare Shakespeare. Tutto il senso filosofico della tragedia, infatti, compreso il manifesto letterario, la polemica teatrale, della vicenda è da Gounod eliminato. Si assiste a una storia romantica di due ragazzi della borghesia francese tardottocentesca. E come la si racconta al pubblico di oggi, soprattutto ai giovani di oggi, una vicenda romantica della borghesia tardottocentesca europea? Michieletto ha immaginato un vecchio, immenso giradischi degli anni 60-70. Un lp è tutta la scena. Mi piacque subito, ma, dopo la prima scena, mi chiesi: e adesso come farà la scena del balcone? Ebbene, Giulietta compare sul pick-up, e sotto, a muso insù, sull’lp, Romeo. Geniale! Immaginate dei bambini che stanno giocando agli indiani. Uno fa: facciamo che io ero un apache e tu uno sceriffo; un bambino si ficca una penna in testa e l’altro, alla vita, una cinta con la pistola. Un gioco, una finzione, ma attuato come realtà. E questo fa Michieletto, rigioca il teatro come un bambino. Una finzione che è vera proprio perché finzione. Facciamo che io ero, dice il bambino. Non: facciamo che io interpreto. Perché il bambino è l’apache, ma senza dimenticare di essere il bambino. E non dimentichiamo che in inglese un testo teatrale si chiama play, in tedesco Spiel, gioco, recitare si dice in inglese to play, in francese jouer, in tedesco spielen, giocare. Sarà per questo che ai loro teatranti riesce più facile, più congeniale, che non ai nostri, giocare quando fanno teatro. La lingua, del resto, è per ogni popolo lo specchio di come guarda il mondo. Sopra una foto del Roméo et Juliette messo in scena da Michieletto alla Fenice di Venezia.
Devi fare login per commentare
Accedi