Perché una risorsa umana ha diritto di cagare

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31 Ottobre 2021

Ho sempre adorato fare la cacca. Sin da piccolo. Mia mamma ne parlò allo psicanalista da cui andava per risolvere un suo problema di alcolismo, e quello le rispose che doveva vigilare su di me e sulle mie abitudini cacatorie, perché c’era il serio rischio che da grande diventassi omosessuale. Mia mamma è morta di cirrosi due anni fa, e al funerale mi ha accompagnato Alina, con cui sono fidanzato/sposato da dodici anni, ma lo psicanalista al funerale non è venuto, se no glielo avrei detto che io gay non ci sono diventato (e comunque se ci diventavo male non era, bastava emigrare, il mio ex cognato Simone è gay e una volta lo hanno preso a legnate davvero di brutto).

Adoravo fare la cacca perché il bagno era l’unico posto a casa dove potessi starmene un po’ tranquillo. Voi capirete: con due sorelle più grandi e un padre teledipendente ossessionato da Berlusconi, casa mia era una gran casino, c’era sempre qualcuno che parlava, litigava, rideva, telefonava, urlava, cantava, inveiva contro l’arbitro venduto, i gobbi, il Cavaliere, Bush jr… Sino al 2008 vivevamo in un piccolo appartamento a Ferrara, e di questo me ne scuso, perché qualche mese fa un importante giornalista ha detto che tutti in Italia hanno vissuto in un casa da un milione di euro, e non mi piace contraddire una persona così famosa e capace. In ogni caso io non ho mai vissuto in una casa da un milione di euro, anche se una volta ho dormito dal mio amico Tullio, figlio di quel Primaldo Rogerio che a Carpi conoscono tutti perché è un notaio bravissimo, così bravo che poi la sinistra l’ha candidato alle Europee ma il poverino ha perso contro un meccanico qualunque, un populista ignorante di destra (sono cose come queste che ti fanno perdere fiducia nella democrazia).

In ogni caso (perdonate la divagazione, mia moglie Alina dice che divago e forse ha un po’ ragione) casa dei miei a Ferrara era una vera bicocca, casa dei miei a Carpi faceva schifo, e dove io e Alina viviamo a Bologna, beh, viene da piangere: vi basti sapere che non ci sono i doppivetri, che l’impianto di riscaldamento non funziona, che c’è la muffa su tutte le pareti e che il nostro vicino di pianerottolo è un riminese che ogni, ma dico ogni, weekend organizza una festa; ci invita pure, chiede ad Alina di portare il suo famoso spezzatino con la mamaliga (la polenta rumena), a me di portare del lambrusco, ma Alina è una ragazza schiva, e io ho sempre diffidato dei romagnoli (lo so, sono razzista, ma io sono nato a Ferrara e mio padre è sardo, capirete bene che coi romagnoli lego poco). Il risultato comunque è che ogni weekend non riusciamo a dormire prima delle tre del mattino, tanto è il casino che fa il romagnolo con i suoi amici.

Tuttavia ho appena trentadue anni, magari la vita mi riserva ville da un milione di euro, magioni così grandi che Alina possa perdersi e io possa avere una stanza solo per lo squash, sport che mi dicono essere molto in voga tra la gente in gamba, quella che porta avanti l’Italia, mentre noi risorse umane ci ostiniamo a preferire il calcio, al massimo la F1.

Comunque a Ferrara l’appartamentino (58 metri quadri calpestabili) aveva solo due camere da letto, una per i miei genitori e una per le mie sorelle; io dormivo sul divano-letto in salotto, un salotto molto angusto e ingombro di cianfrusaglie ereditate da nonna Antonia, e questo mi faceva sentire un piccolo profugo, specie quando di notte mia madre passava da lì per andare in cucina a bere uno o due bicchieri d’acqua, e io dovevo fingere di dormire perché se capiva che ero sveglio si incazzava come una jena.

Dato che la camera delle mie sorelle era off-limits, e non potevo entrare senza autorizzazione nella camera dei miei genitori (mio padre aveva trasformato la piccola scrivania sotto l’unica finestra della stanza nel suo studiolo, dove si dedicava alla lettura della Gazzetta dello Sport e del manifesto), nel salotto la TV era perennemente accesa, e la cucina-sala da pranzo era il regno di mia mamma, io mi rifugiavo in bagno. Dove potevo rimanere sinché volevo, purché avessi una buona giustificazione per stare lì. Cacare lo era.

E mentre cagavo, leggevo, praticamente di tutto: i vecchi numeri della Gazzetta dello Sport e del manifesto, le guide TV, Top Girl, i vecchi gialli della biblioteca che mia mamma prendeva in prestito e restituiva invariabilmente in ritardo (con conseguente multa), Il Capitale di Karl Marx (mio padre l’aveva preso a una Festa dell’Unità del 1978 o del 1979, e di tanto in tanto lo leggiucchiava senza capirci più di tanto, come me del resto), i romanzetti che le mie sorelle compravano alle bancarelle sognando il principe azzurro (oggi Antonia è divorziata, Giulia è separata, ma non credo questo c’entri molto), gli occasionali Topolino che mi regalavano gli zii, la raccolta dei discorsi di Berlinguer, Il Nome della Rosa ecc.. Passavo lunghissimi quarti d’ora, a volte anche un’ora intera, a leggere, in santissima pace, e intanto cagavo, e cagando tenevo alla larga tutti: le mie sorelle schifiltose ovvio, ma pure mio papà, che a Ferrara lavorava come netturbino e pertanto a casa non voleva avere nulla a che fare con nessun tipo di rifiuto o escremento, fosse l’immondizia da buttare o la cacca di suo figlio; persino mia mamma mi lasciava tranquillo. Mentre cagavo ero così concentrato che non sentivo neanche la TV accesa, le urla di Antonia che litigava con Giulia, di Giulia e Antonia che litigavano con mia mamma, mio padre che inveiva contro il Cavaliere ecc.

Quando ci trasferimmo a Carpi, dove mio padre aveva trovato lavoro in una fabbrica di scarpe, le cose andarono persino meglio, perché quella casa faceva sì schifo (del resto il giardinetto condominiale era infestato dalle bisce e il padrone di casa era un ladro matricolato), ma almeno quella casa scalcinata aveva due bagni: uno grande tutto piastrellato, uno asfittico e gelido, con poca luce, senza intonaco, e in quest’ultimo potevo stare tutto il tempo che volevo senza che nessuno mi rompesse i cosiddetti.

Posso dire che per molti anni cagare è stato il mio principale hobby: gratuito (io di paghetta a sedici anni prendevo due euro a settimana), tranquillo, sicuro. I miei erano contenti, perché non mi drogavo nè chiedevo il motorino, giusto un extra di carta igienica. Mentre cagavo leggevo libri e fumetti, divoravo i tomi che prendevo in prestito dalla biblioteca scolastica, studiavo, a volte riuscivo persino a scribacchiare due righe, principalmente racconti nello stile icastico del mio nume tutelare, il grandissimo Enrico Brizzi, genio che una volta avevo avvistato con Antonia a Bologna, e che mi aveva fatto un autografo sul tovagliolino del bar dove stava bevendo un cappuccino e mangiando un cornetto alla crema.

Grazie alla cacca imparai ad amare la letteratura, l’arte, il giornalismo, la politica. Dopo i cinque anni a ragioneria mi iscrissi a lettere (fare tutti i giorni il pendolare Carpi-Bologna era a suo modo divertente), e non mi laureai solo perché mio padre perse il lavoro, e per dare una mano iniziai a lavorare in una pizzeria di Correggio, e quando mia mamma si ammalò mi trovai un lavoro anche in un negozio di scarpe del centro. Ammetto di non essere mai stato una persona tenace, e probabilmente non meritavo di laurearmi, sta di fatto che mi fermai a sei esami dalla laurea. Era inutile buttare più di un migliaio di euro l’anno per dare un solo esame, e vedevo ecdotica come uno scoglio insormontabile. E del resto a cosa sarebbe servito l’ennesimo laureato in lettere? Avessi scelto, che so, ingegneria meccanica, o ingegneria elettronica, forse il discorso sarebbe stato diverso, in Italia gli ingegneri servono, specie se costano poco, lo diceva un politico riformista qualche tempo fa, per convincere gli stranieri a investire in Italia: aprite le aziende qui, gli ingegneri costano poco, e se poi vi stufate potete chiudere tutto senza problemi, ci mancherebbe altro!

Non mi impegnavo a sufficienza, a stento avevo la media del venticinque, all’esame di filologia romanza mi bocciarono due volte. Volete sapere chi era brava per davvero? Ginevra, la cugina di Tullio, il figlio del notaio. Lei è un anno più grande di me, ma di tanto in tanto facevamo gli stessi laboratori, e avevamo qualche amico in comune. Lei era nata per fare la scrittrice, e a differenza di me che passavo il tempo libero a leggere romanzi di Conrad, London o Scott, Hemingway o Steinbeck, lei divorava con passione e acume qualsiasi tomo di critica della vasta biblioteca materna; aveva la media del trenta, scriveva saggi brillanti sul post-femminismo, meritava di far carriera, e oggi infatti è editor in una famosa casa editrice di Milano. E poi dicono che in Italia non c’è spazio per il merito!

Qualche volta ci vediamo, a Bologna, e Ginevra mi racconta della sua vita incredibile, dei romanzi fantastici che riesce a far pubblicare: la storia di una ragazzina sorda nella Napoli del dopoguerra, la parabola straordinaria di una donna siciliana vessata dal marito che alla fine perdona il suo aguzzino, la storia di due amiche innamorate dello stesso uomo nella Milano tormentata del primo dopoguerra (una delle due amiche è ebrea, l’altra è liberale, l’uomo un ardente sansepolcrista), il grande affresco di una famiglia di orefici e poeti nella Vicenza democristiana degli anni Sessanta ecc. E tu ancora scrivi, mi domanda sempre Ginevra; io le rispondo di sì, e allora lei mi sorride e mi incoraggia, e ogni volta mi dice di mandare la bozza definitiva a manoscritti@……., che la sua casa editrice è attenta alle voci dai territori, mi raccomanda di fare il suo nome nella email, così il manoscritto riceverà un trattamento preferenziale.

Io scrivo quando vado in bagno, e solo quando vado in bagno. Al momento il mio romanzo è lungo cinquecentosettantadue pagine, e prima o poi mi dovrò decidere a trascriverlo sul pc. Devo ammettere che vado in bagno piuttosto spesso, e per anni nessuno ha mai avuto nulla in contrario. Però il mese scorso Alina, che come ogni donna rumena ha un grande senso pratico (e infatti è capo-reparto in ditta, pur avendo solo ventisei anni), mi ha aspettato fuori dal bagno e mi ha detto: “Enrico, tu passi davvero troppo, troppo tempo al WC. Quarantasette minuti, li ho cronometrati. Prima o poi tu ti caccerai nei guai. Non puoi, alla tua età, stare in bagno così tanto tempo, come minimo ti verranno le emorroidi”.

Amo profondamente Alina, ma lì mi sono dovuto trattenere dal riderle in faccia. A me cagare, spesso e volentieri, fa giusto bene: depura, rilassa, e favorisce la creatività, come certificano le citate cinquecentosettantadue pagine. Io delle mie cagate ho solo bei ricordi. Grazie a esse riesco persino a dimenticare quanto odi il mio lavoro. Cielo, forse odiare è una parola grossa, dato che senza quello stipendio avremmo a malapena i soldi per pagare l’affitto e le bollette, niente per cibo, auto, vestiti, medicine, emergenze, cellulare, pizza dell’ultimo sabato del mese ecc. E ogni lavoro è importante, soprattutto quando l’alternativa è prendere il reddito di cittadinanza, che come ci spiegano politici e opinionisti è praticamente un furto ai danni della collettività, di tutti quegli imprenditori e professionisti che si alzano alle cinque del mattino per andare in fabbrica o in studio, mentre io inizio a lavorare alle otto e mezza, e alle diciannove e mezza sono già sulla via di casa.

Simone, il mio ex cognato che oltre a essere gay è anche iscritto alla CGIL, dice che la ditta mi sfrutta, ma a me lo stipendio pidocchioso va pure bene, perché alla fine non è colpa del dottor Pazzollini se a loro i sussidi dello Stato non arrivano, e stare di fronte a un orditoio non è peggio di stare di fronte a un monitor tutto il giorno (ho chiesto al dottor Pazzollini se Mirta, la sua fidanzata, avesse bisogno di una mano in contabilità, e lui mi ha detto di no); ciò che del mio lavoro proprio non sopporto è il fatto che le risorse umane, cioè noi, non possiamo andare a cagare. Abbiamo diritto a una pausa-pipì di due minuti cronometrati, e in effetti due minuti per pisciare possono bastare, purché uno corra come un fulmine al cesso, pisci senza lavarsi le mani e se ne torni altrettanto di corsa all’orditoio. Quello che invece non è possibile umanamente fare è cagare in due minuti. Come si fa? Chi ci riesce?

Una volta, con grande rispetto ed educazione, ho detto al dottor Pazzollini che era assurdo chiedere a una risorsa umana di cagare in due minuti, e lui mi ha risposto che sì, avevo ragione, ma che per cagare c’era la pausa-pranzo di venti minuti. Io gli ho detto allora: “Ma scusi, e poi uno quando mangia, dottor Pazzollini?”, e lui mi ha risposto: “Può mangiare mentre caga, Piras”. Ora, io mi rendo conto che i tempi sono complessi, sfidanti, pandemici, che dobbiamo tutti imparare a essere più resilienti, ma come fa una risorsa umana a mangiare e a cagare allo stesso tempo? Io penso che una risorsa umana abbia diritto di cagare. L’ho detto a Simone, al mio ex cognato, e lui ha annuito e ha detto: “Qui dobbiamo fare la rivoluzione Enrico. Cagare è un diritto umano, porca eva!”. Io non so se farò la rivoluzione, ma nel mio libro questa cosa l’ho scritta, che in certi posti gli operai non hanno neanche diritto di cagare. E ho ripreso in mano Karl Marx. So che è vecchio, so che è antiquato, so che è superato dalla storia; io però me lo sto rileggendo, anche se non ci capisco molto confesso.

 

Il wc in copertina è una rielaborazione con un noto software gratuito di una bella foto scaricata da Pixabay.

TAG: Lavoro, Marx, nuovi proletari, precariato, sconfitti, sinistra
CAT: diritti umani, lavoro dipendente

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