VOLUTA mancata liberazione di Moro dal “carcere del popolo”

:
28 Dicembre 2023

La mia scarsa fiducia nelle commissioni parlamentari d’inchiesta[1] deriva da un fatto preciso, che mi pare decisamente grave. Nella seconda commissione sul rapimento e uccisione dell’onorevole Aldo Moro, democristiano più volte capo del governo, commissione istituita con la legge 82 del 30 maggio 2014 e presieduta dall’onorevole del PD Giuseppe Fioroni, il 3 marzo 2015 nella seduta iniziata alle ore 21 è stato audito il magistrato Franco Ionta, procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Roma. Rispondendo a domande del deputato del PD Gero Grassi, Ionta ha riferito quanto gli avevo testimoniato in una deposizione, pretesa da lui a tutti i costi anche con minacce di denuncia per reticenza, riguardo un particolare del mio libro Tangenti in confessionale[2]. Libro edito nel ’93, in piena epoca del ciclone giudiziario Mani Pulite, detto anche Tangentopoli e noto per avere spazzato via i partiti, che s’è scoperto incassavano mazzette e tangenti soprattutto sui lavori pubblici, e con essi quella che è stata poi chiamata la Prima Repubblica.

Il particolare in questione se indagato e approfondito avrebbe potuto permettere di scoprire perché il drappello di poliziotti inviato per liberare Moro una volta arrivato a un isolato di distanza dalla “prigione del popolo” ricevette l’ordine di tornare indietro. Da notare che ho riferito questa vicenda a tutti i capigruppo del parlamento, al presidente del senato Ignazio La Russa, all’onorevole Maurizio Gasparri e a uno dei primissimi parlamentari che hanno proposto la commissione bicamerale sul mistero Orlandi. Di quest’ultimo non intendo almeno per ora farne i nome, ma ho dovuto prendere atto che sia lui che i capigruppo, La Russa e Gasparri hanno preferito non fare nulla, esattamente come nel 2011 e 2012 anche l’allora onorevole Valter Veltroni. E dire che se l’ex poliziotto del quale parlerò qui di seguito fosse ancora vivo si potrebbe finalmente risolvere il mistero della mancata liberazione di Aldo Moro.

In “Tangenti in confessionale” riportavo i dialoghi, che ho debitamente registrato di nascosto, tra me e una 50ina di sacerdoti confessori di decine delle più famose chiese italiane: di Torino, Milano, Napoli, Verona, Roma, Vaticano, Padova…, ognuna rappresentativa per un qualche motivo anche simbolico. Io mi presentavo sempre come un politico pentito che confessava di avere accettato metodicamente i soldi delle tangenti o a volte come un imprenditore pentito che confessava di avere usato le tangenti per corrompere i politici.

L’episodio del drappello di poliziotti che arrivati a un isolato dalla “prigione del popolo” ricevettero l’ordine di tornare indietro mi è stato riferito nei primi giorni, tra il 3 e il 5, dell’agosto 1993 nella chiesa del Gesù in piazza del Gesù a Roma. Me ne ha parlato un confessore sacerdote gesuita – nel primo confessionale a destra entrando in chiesa – che lo aveva appreso da uno di quei poliziotti: per la precisione, da quello che era stato un suo alunno quando insegnava. Avevo scelto anche quella chiesa perché si trova nella stessa piazza del Gesù dove aveva sede la direzione nazionale del partito Democrazia Cristiana e perché in quella chiesa andava a messa quasi ogni mattina l’onorevole Giulio Andreotti, pezzo grosso della Democrazia Cristiana più volte capo del governo e ministro e capo del governo, dove presumevo si confessasse anche. Inoltre, proprio a soli 150 metri di distanza, nella vicina via Caetani, era stato lasciato a suo tempo il cadavere di Moro trasportato da via Montalcini con una Renault rossa. Più simbolismo di così!

Volendo – ripeto: VOLENDO – la commissione avrebbe potuto rintracciare facilmente il poliziotto ex alunno del sacerdote gesuita. Questi infatti mi aveva confidato che:
– quel suo ex alunno si era arruolato in polizia ed era diventato basco nero;
– gli aveva chiesto il permesso morale, accordato senza problemi, di venire infiltrato nelle Brigate Rosse;
– “disgustato per la mancata liberazione di Moro si è dimesso dalla polizia”;
– “è tornato a lavorare nella falegnameria del padre”.

A Ionta avevo consegnato copia della registrazione della mia “confessione” nella chiesa del Gesù e indicato che il confessore era quello del primo confessionale a destra entrando nella chiesa. Confessionale che recava scritto nella apposita targa di metallo in alto il nome del confessore e gli orari nei quali raccoglieva le confessioni. Nel rispondere a Gero Grassi e consegnargli un pacco di documenti giudiziari il magistrato ha detto[3]:

“Ci sono anche le dichiarazioni di un giornalista, Nicotri – non ricordo il nome – che aveva intervistato il confessore di Andreotti. C’è il verbale anche di questo”.

Dopo 12 anni dall’avermi interrogato il magistrato fa un po’ di confusione. Confonde le mie “confessioni” con delle interviste. Ionta inoltre confonde il sacerdote della chiesa del Gesù con il confessore di Francesco Cossiga – politico democristiano a suo tempo anche presidente della Repubblica – col quale mi sono “confessato” nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina nella omonima piazza. Andreotti la sua segreteria particolare l’aveva in un palazzo di quella piazza e questo è il motivo per cui ho scelto anche quella chiesa.

E’ evidente che di poliziotti baschi neri, infiltrati nelle BR, dimessisi dalla polizia e col padre falegname, NON doveva certo essercene una marea. Individuare l’ex alunno del gesuita della chiesa del Gesù era una gioco da ragazzi. Alla commissione parlamentare Ionta aveva fatto esplicitamente il mio nome avvertendola che gli avevo fatto delle dichiarazioni, delle quali ha consegnato il relativo verbale. Ma la commissione NON ha fatto nulla. ASSOLUTAMENTE NULLA! Ha preferito NON FARE ASSOLUTAMENTE NULLA anche l’allora onorevole Valter Veltroni, come spiego meglio nel Post Scriptum alla fine di questo articolo.

La commissione ha preferito dare corda al deputato del PD Miguel Gotor, che passa per essere anche “uno storico e saggista”, e al suo libro Il memoriale della Repubblica. Nel libro Gotor prende un granchio colossale, sufficiente a svalutarlo o squalificarlo come storico e saggista. Parlando dell’incontro a Roma nel luglio ’78 tra Franco Piperno, ex leader Potere Operaio diventato leader di Autonomia Operaia, e Mario Moretti, leader delle Brigate Rosse, Gotor spiega che è “avvenuto in una casa alto borghese situata nei dintorni di piazza Cavour”, per poi aggiungere una “curiosa coincidenza topografica”. Gotor sostiene che nel ’78 vicino piazza Cavour abitava il giornalista de L’Espresso Mario Scialoja, i cui articoli erano sempre bene informati riguardo le Brigate Rosse e dintorni. E che di conseguenza la casa della “clamorosa riunione” potesse essere proprio la sua.

Peccato che nel ’78 Scialoja abitasse ancora ai Parioli, in via S. Valentino 18, dove ero ospite tutte le volte che andavo a Roma non solo per scrivere assieme articoli di eversione e terrorismi per L’Espresso, settimanale del quale all’epoca del rapimento Moro ero collaboratore fisso. Così come ero ospite nella casa vicino piazza Cavour quando Scialoja ci si è trasferito nella seconda metà del ’79.

Nel mio libro Cronaca criminale[4], edito nel 2010, ho descritto il mio incontro con Ionta:
«Dopo la pubblicazione del mio libro, il pubblico ministero Franco Ionta mi ha convocato per interrogarmi e chiedermi chi fosse esattamente quel confessore. Nonostante il tono perentorio del magistrato, con velata minaccia di guai giudiziari, ho opposto il segreto professionale, specificando però che ero disponibile a rispondere, ma solo dopo che l’Ordine dei giornalisti mi avesse sciolto, su mia richiesta, dall’obbligo del segreto. Tornato a Milano, ho chiesto per iscritto di esserne sollevato data l’importanza dell’argomento e della mia testimonianza. Ottenuto il permesso, sono stato riconvocato a Roma da Ionta, e questa volta gli ho portato una copia del nastro con il dialogo nel confessionale.
Man mano che ascoltava il nastro il magistrato si incupiva sempre di più. E ogni tanto continuava a ripetermi: «Ma non le sembra strano?» Ho cominciato a sentirmi a disagio, e a un certo punto ho temuto che magari venissi accusato di avere falsificato il nastro. All’ennesimo «Ma non le sembra strano?» mi sono stufato e ho ribattuto: «A me sembra strano, anzi stranissimo, però la sua è una domanda che dovrebbe rivolgere non a me, ma al confessore».
Silenzio di gelo. Finito il nastro Ionta guardandomi in modo che mi è parso ostile mi ha chiesto: «E chi sarebbe questo confessore?»
«Credo lei volesse dire “chi è” e non “chi sarebbe”. Comunque la risposta è semplice: quello che riceve nel primo confessionale a destra entrando in chiesa», ho risposto specificandone anche il nome: «C’è affissa una targhetta in ottone con scritto come si chiama il confessore e gli orari durante i quali è presente».
«E che lo interrogo a fare? È chiaro che mi opporrà il segreto del confessionale».
“Beh, ma scusi, dottor Ionta, per arrivare a questa conclusione non c’era bisogno di farmi sciogliere dall’obbligo del segreto e farmi tornare a Roma. Ma se non intende interrogarlo, qual è il motivo per cui ne vuole sapere il nome? Qualcuno vuole forse chiedere anche a lui di tacere?”.
“Ma come si permette!”.
“Guardi che quel confessore non può assolutamente accampare il segreto perché ha detto chiaro e tondo, come lei ha sentito ascoltando il nastro, che il suo ex alunno in realtà non è andato a confessarsi, a parlare cioè dei propri peccati, ma solo a chiedergli un consiglio. Lei perciò può e anzi deve interrogarlo. E se non risponde lo può anche arrestare o comunque mandare sotto processo. Proprio come ha minacciato di fare con me. O devo pensare che secondo lei io ho meno diritti del gesuita?”.
“Nicotri, guardi che qui cosa fare lo decido io. Lei non può certo starmi a dire cosa devo o non devo fare”.
“Con la sua coscienza se le vede lei. Comunque guardi che questa è l’unica occasione di chiarire finalmente la bruttissima faccenda della mancata liberazione di Moro. E in ogni caso, confessore o non confessore, è sicuro che non ce ne sono tante di ex teste di cuoio figli di falegnami infiltrate nelle Brigate Rosse e scappate dalla polizia dopo la faccenda Moro per andare a fare il falegname dal papà. Se questo ex poliziotto lo cercate, lo trovate di sicuro. Se lo volete trovare, naturalmente”.
“Ah, ma allora lei non vuole capire! Qui comando io, e lei non deve assolutamente dirmi cosa cavolo devo fare!”.

 

Conclusione? La prima è che sono uscito dal palazzo di Giustizia vergognandomi. Vergognandomi della mia disponibilità con il magistrato. E vergognandomi d’essermi fatto sciogliere dall’obbligo del segreto. Mi sentivo molto a disagio, in imbarazzo con me stesso. La seconda conclusione: è chiaro come il sole che NON si è voluto chiarire il “mistero” della prigione di Moro. Esattamente come a suo tempo non si voleva che la si trovasse.

 

Tornato a Milano, dopo una 20ina di giorni ho telefonato a Ionta per chiedergli se avesse interrogato il gesuita. Risposta: “Le ho già detto che le domande le faccio io!”. Ho insistito, con ironia: “Certo. E’ per questo che immagino che le abbia quindi fatte anche al gesuita”. A questo punto il mio interlocutore ha interrotto di colpo la telefonata.

Due giorni dopo la “confessione” nella chiesa del Gesù sono andato a confessarmi nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina, scelta perché nella omonima piazza si affacciava la segreteria particolare di Andreotti. Mai avrei immaginato che il parroco della mia “confessione” era stato il confessore di Francesco Cossiga, altro pezzo grosso della Democrazia Cristiana, ministro dell’Interno durante il sequestro di Moro, due volte capo del governo e infine presidente della repubblica. Per chi volesse saperne di più su quelle due straordinarie “confessioni”, nella chiesa del Gesù e nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina, scrivo qui di seguito come sono andate.

Entrato nella chiesa del Gesù, mi sono diretto verso il primo confessionale a destra, dove c’era un sacerdote in attesa di penitenti. Non avrei immaginato neppure da lontano che il discorso sarebbe piombato nel caso Moro, e in modo così tranchant: io parlavo di tangenti e il confessore per dirmi che era un andazzo molto noto e tollerato mi stava dicendo che era noto tanto quanto a suo tempo il luogo della prigione di Moro!
Il cuore m’è schizzato in gola e ho cominciato a sudare non solo per il caldo. La storia che mi ha raccontato quel gesuita è la seguente: «Un mio ex alunno si era arruolato nella polizia ed era entrato nel corpo delle “teste di cuoio”. Un giorno è venuto a chiedermi l’autorizzazione morale per infiltrarsi nelle Brigate Rosse, voleva cioè sapere da me se l’infiltrarsi era morale o immorale. Gli dissi che era morale. Passato del tempo, quel mio ex alunno è tornato da me schifato.
Mi ha raccontato che “mentre stavano andando a liberare Moro ed erano già arrivati a un isolato dalla sua prigione, all’improvviso ricevettero l’ordine di tornare indietro. Il mio ex alunno rimase talmente schifato che si è dimesso dalla polizia. Ora lavora nella falegnameria del padre”.
Chiaro quindi che si trattava della prigione di via Montalcini, altrimenti non si spiegherebbero lo schifo e lo scappar via dalla polizia.

Ero sconvolto. Ma uno o due giorni dopo sarei rimasto ancora più sconvolto. Sono andato infatti a confessarmi anche nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina, nella omonima piazza, scelta perché in quella piazza aveva il suo storico ufficio privato l’ancor più storico Andreotti. Mi si è presentato un parroco con i capelli a spazzola e l’accento pugliese. Anziché nel confessionale, mi ha sorpreso facendomi accomodare nel cortiletto della sagrestia, seduti uno di fronte all’altro su banali sedie e separati da nulla.
Ero teso perché temevo si capisse che il giornale che stringevo nervosamente in mano nascondeva quello che nascondeva. Ma a un certo punto ho rischiato di cadere dalla sedia: quel parroco – anche lui per consolarmi aveva premesso che il fenomeno delle mazzette era noto e tollerato quanto certi misteri del caso Moro – mi stava dicendo che era stato il confessore di Cossiga all’epoca del sequestro Moro!
«Quando, durante l’affare Moro, Cossiga era ministro dell’Interno e lo confessavo io, in quel frangente dicevo: “Professore, io la posso solo assolvere dei suoi peccati. Ma la situazione sua se la deve andare a sbrigare da qualche altro”. Allora c’era Ferretto, c’era Dossetti [compagni d’Università di Moro che dopo avere fatto politica hanno infine scelto la vita in convento, ndr]. Dicevo: “Vada a sentire loro. Perché, anche, loro sono quelli che, avendo fatto carriera con lei, con Moro e col partito, a un certo punto hanno fatto un’altra scelta, possono aiutarla adesso”. A questo tipo di sollecitazione lui diceva: “Lascio perdere tutto”».
Tradotto in linguaggio comune, il suo ex confessore mi stava dicendo che Cossiga aveva un enorme peso sulla coscienza per le scelte fatte. Lo straordinario racconto del parroco di S. Lorenzo in Lucina confermava in pieno quanto più volte e più o meno chiaramente trapelato e in parte ambiguamente ammesso dallo stesso Cossiga. Che, come da lui stesso ammesso, per lo stress del peso sulla coscienza contrasse sulla pelle del viso la vitiligine.

Le due confessioni hanno avuto un seguito ciascuna. Il primo è che ho scritto a Cossiga chiedendo lumi sulle pesanti parole del suo ex confessore e ne ho ricevuto la seguente risposta:
«Caro Nicotri, si tratta di una faccenda troppo importante per lasciarla trattare a un prete».
Il secondo è che dopo la pubblicazione del mio libro, il pubblico ministero Franco Jonta, come ho già detto, mi ha convocato per interrogarmi e chiedermi chi fosse esattamente quel confessore.

POST SCRIPTUM
1) – Di quanto appreso dal confessore della chiesa del Gesù ho scritto via mail nel 2011 all’allora ancora onorevole Valter Veltroni. Che mi ha promesso sempre via mail che avrebbe letto quanto gli avevo inviato e che avrebbe provveduto a sollevare il problema della mancata liberazione di Moro. A quell’epoca, 12 anni fa, era ancora probabile, più di oggi, che l’ex poliziotto fosse in vita. Trovarlo avrebbe potuto risolvere il mistero della mancata liberazione in un caso che è diventato una tragedia nazionale. Che a chiacchiere sta sempre molto a cuore a tutti i politici. A chiacchiere.
Nonostante lo scambio di mail andato avanti anche nel 2012 per sollecitarlo, Veltroni esattamente come la commissione parlamentare NON HA FATTO ASSOLUTAMENTE NULLA.
2) – Il 9 novembre ho inviato a tutti i capigruppo del parlamento e ai senatori Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri una mail PEC per segnalare il grave episodio della voluta mancata liberazione di Moro. E il 19 novembre l’ho segnalata anche all’ANSA, con l’aggiunta del menefreghismo dei citati capigruppo e degli onorevoli La Russa e Gasparri. NESSUNO ha raccolto la segnalazione né si è fatto vivo per chiedere maggiori informazioni.

[1] VATICAN GIRL E LA COMMISSIONE – GLI STATI GENERALI
[2] Tangenti in confessionale. Come i preti rispondono a corrotti e corruttori : Nicotri, Pino: Amazon.it: Libri
[3] documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni/stenografici/html/68/audiz2/audizione/2015/03/03/indice_stenografico.0021.html?fbclid=IwAR2xcPsFCqDLx3O7G-4Z7PyGvlmNUD6qnDrQYEhKveqUr_TNb2URcMy7NMY#stenograficoCommissione.tit00020.int00130
[4] Cronaca criminale. La storia definitiva della banda della Magliana : Nicotri, Pino: Amazon.it: Libri

TAG: Aldo Moro
CAT: diritti umani, Giustizia

Nessun commento

Devi fare per commentare, è semplice e veloce.

CARICAMENTO...