[*] Che cos’è più sociale? Una cooperativa sociale che lavora presso la mensa di una grande azienda, impiegando il 33% di soggetti svantaggiati come impone una legge di riferimento, o una startup digitale che promuove il carpooling aziendale in zone industriali delle nostre città ultra congestionate? La domanda può sembrare tendenziosa, ma costituisce a tutti gli effetti il non detto del Forum Europeo dell’economia sociale e solidale promosso dal gruppo GUE/NGL tenutosi la scorsa settimana a Bruxelles presso il Parlamento Europeo e che mirava appunto a costruire un momento di interlocuzione tra forze sociali e istituzioni del Vecchio Continente.
Eppure la discussione formale ed informale ha finito per accendere i riflettori esattamente su questo punto: come rendicontare, cioè come dare conto dell’impatto sociale delle varie pratiche economiche che operano nei diversi settori della nostra società (in particolare alla luce delle grandi trasformazioni tecnologiche e sociali che hanno investito l’Europa e il mondo all’indomani della Grande Crisi)? Il tutto partendo da un dato numerico difficilmente contestabile (almeno in Italia): negli ultimi 10 anni l’unico settore dell’economia ad essere cresciuto è stata infatti l’economia sociale (o Terzo Settore).
Per una nuova definizione
Nell’ambito della delegazione italiana, che aveva già avuto modo di incontrarsi a dicembre presso il centro di coworking Millepiani della Garbatella, le opinioni al riguardo sono, ed erano, piuttosto chiare: parlare di economia sociale concentrandosi unicamente o principalmente su criteri legali/formali (forma giuridica, tipologia di servizi offerti, ecc ecc) non solo non è opportuno, ma è poco perspicuo in quanto ci preclude un eterogeneo ambito di pratiche, azioni, modelli di business emersi principalmente negli ultimi anni e che, sebbene ancora economicamente minoritari, rappresentano plasticamente un spaccato del nuovo mondo (Fablab, coworking, ecc ecc). Un ponte tra quello che c’è e quello che non c’è ancora. Da qui l’idea di ragionare in termini di processo e di impatti, ovvero valutare la capacità di un’impresa/cooperativa/start up di essere sociale e solidale alla luce della propria governance e delle modalità di ingaggio degli utenti, in particolare di coinvolgimento della comunità nella quale insiste (si è sociali e solidali sia nei mezzi che nei fini), e alla luce degli impatti prodotti in campo economico, sociale e ambientale (la cosiddetta triple bottom line). La conseguenza di tale approccio è evidente: si è sociali e solidali non a priori sulla base dell’appartenenza a qualche particolare categoria giuridica, o almeno non solo, ma solamente a posteriori alla luce di una effettiva valutazione degli impatti prodotti (qualcosa di analogo a quanto maturato in sede di dottrina amministrativistica, dove si considera il servizio pubblico tale non sulla base del soggetto erogatore, ma sulla base del servizio stesso offerto).
Quanto scritto ci porta a considerare un ulteriore elemento, ovvero come valutare in maniera perspicua l’impatto sociale, ma anche ambientale, di una determinata organizzazione. Quali strumenti già noti possiamo utilizzare e quali dobbiamo invece costruire ad hoc per avere una piena contezza dell’impatto delle diverse organizzazioni economiche? Come scrivono Stefano Zamagni, Sara Rago e Paolo Venturi nel saggio “Valutare l’impatto sociale. La questione della misurazione delle imprese sociali” occorre lavorare per “Una metrica che superi le logiche di misurazione strettamente legate al mondo capitalistico, che tralasciano aspetti definitori e fondamentali del Terzo settore (quali, ad esempio, il grado di democraticità interna), e che sia in grado di valorizzare gli elementi e i percorsi di innovazione sociale di cui le imprese sociali si fanno portatrici nei mezzi e nei fini del loro agire”. E una metrica non è mai solo una questione tecnica: la definizione di una metrica è essenzialmente una questione politica, ovvero una questione di scelte collettive su cosa ha valore e cosa no all’interno di una comunità. Una discussione molto aperta che interroga ovviamente il Terzo Settore, ma che andrebbe estesa a quella zona grigia fatta di enti ed organizzazioni formali e informali che, nel vincolo della sostenibilità economica, producono effetti concreti nelle comunità di appartenenza.
Verso una catena del valore fondata sugli impatti
L’idea di misurare e valutare gli impatti, dunque, non è più una questione meramente tecnica e non ha a che fare solo con la costruzione di set di indicatori da somministrare. Tutti questi sforzi, piuttosto, vanno letti nella direzione di costruire una nuova catena del valore, che, citando un pioniere dell’Innovazione Sociale come Alex Giordano “può cambiare definitivamente il concetto di impresa e, a seguire, di capitalismo”.
Non è questo il luogo opportuno per approfondire le tecniche e gli strumenti di lavoro, ma proviamo a ragionare al contrario e a fare quella che in altri paesi chiamano evaluability assessment. Cosa accadrebbe se avessimo le evidenze degli impatti sociali e ambientali delle organizzazioni (di qualsiasi ettore) produttrici di beni e servizi?
Semplicemente sapremmo qual è il beneficio (o il costo) sociale delle attività, dei processi, dei progetti, dei prodotti. E ciò genererebbe implicazioni molto significative: sul consumo, sposando una modalità di comunicazione dei prodotti che aumenterebbe la consapevolezza del cittadino-consumatore; sui processi produttivi, inducendo le imprese che si definiscono socialmente responsabili a considerare la CSR come chiave strategica e non come qualcosa di separato dal core business aziendale; sui policy maker, che potrebbero ripensare la legislazione (anche fiscale) in funzione degli impatti.
Ma più in generale, potremmo riscoprire politiche davvero intelligenti per generare valore aggiunto sociale, capace di incidere contemporaneamente sullo sviluppo economico del Paese sia sulla coesione territoriale.
È questo, dunque, l’esercizio di immaginazione che manca: se solo giocassimo al what if scopriremmo quanto potenziale c’è da sprigionare e quante vie innovative possiamo percorrere per un benessere condiviso.
In ultimo, ma sicuramente non per rilevanza, una riflessione naturale sul dibattito risalente circa l’esigenza di superare il PIL come indicatore generale di salute di un Paese. D’accordissimo, ci mancherebbe, la stupidità di quell’indicatore è stata rimarcata da tantissimi osservatori. Ci che manca per superarlo, però, è l’alternativa organizzata e diffuso al PIL, che viene generato da metriche consolidate e note, da categorie professionali che fanno misurazioni finanziarie e le collegano da scale micro ad aggregazioni macro.
In poche parole, per superare il PIL occorre una nuova generazione di commercialisti che, oltre a misurare la contabilità finanziaria, misuri gli impatti delle organizzazioni e occorre un sistema informativo che metta insieme tali misurazioni su scale di aggregazione per giungere ad un indicatore macro sulla base di microfondazioni. Big data al servizio di un cambiamento epocale di prassi e politiche.
In conclusione
Sebbene sia lontani dall’aver raggiunto risultati definitivi è indubbio che alcuni punti sono stati fissati: l’economia sociale non rappresenta più, posto che l’abbia mai rappresentato, un’area terza rispetto al binomio stato-mercato (un dato auto-evidente ma di cui c’è poca consapevolezza in primo luogo tra gli stessi attori dell’economia sociale); la misurazione dell’impatto sociale può e deve essere il grande tema d’incontro tra università, PA e mondo produttivo al fine di raffinare strumenti e metriche già disponibili o, se il caso, produrne di nuovi; il processo organizzativo orizzontale, a rete e il business model sono la cartina di tornasole attraverso cui giudicare la congruità di una pratica al cluster dell’economia sociale. Perché al di là di tutto una cosa è certa: l’economia sociale (e solidale) is the new black.
[*] Articolo scritto con il contributo di Luigi Corvo, ricercatore presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata
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