Economia
La disoccupazione tecnologica che cresce non fa rumore
L’automazione avanza e accelera da decenni ma continuiamo a raccontarci che “crea più lavoro di quanto ne distrugga”. Forse è tempo di guardare in faccia la realtà per far fronte alla rivoluzione tecnologica che ci sta investendo.
Negli ultimi decenni l’automazione, la digitalizzazione e, più recentemente, l’intelligenza artificiale hanno assorbito molti posti di lavoro, anche se si continua a sostenere che ne abbiano creati almeno altrettanti. La mia opinione è che il saldo tra occupazione e disoccupazione tecnologica sia negativo e, come tutti sanno, il peggio deve ancora venire.
Lo dico anche per esperienza personale. Sono entrato nel mondo del lavoro più di trent’anni fa, insieme a un’intera generazione — quella dei boomer — che contava anche più di un milione di nati all’anno. Eravamo forse troppi per un Paese che non cresceva più ai ritmi degli anni del boom economico. Nonostante una laurea in Economia e un master in marketing, per me non è stato così semplice ottenere un primo vero impiego (nonostante fossi a Milano).
Oggi vedo che i giovani della mia famiglia, pur con titoli di studio equivalenti ai miei, fanno ancora fatica a trovare un lavoro dignitoso anche se appartengono a generazioni numericamente dimezzate rispetto alla mia, più scolarizzate e con una maggiore propensione ad andare a cercare lavoro all’estero. Pertanto, non credo sia un caso che la disoccupazione prevalente sia quella giovanile. Qualcosa, dunque, è successo nel mondo del lavoro per avere questa stagnazione prolungata negli anni, nonostante una domanda di primo impiego molto più che dimezzata.
A mio avviso le nuove tecnologie hanno sottratto molti più posti di lavoro di quanti ne abbiano creati. La disoccupazione tecnologica è ben conosciuta dagli economisti — negli Stati Uniti esistono persino sussidi dedicati a chi perde il lavoro proprio a causa delle nuove tecnologie. Da noi, invece, il fenomeno viene spesso neutralizzato da un mantra rassicurante: “in passato ogni rivoluzione tecnologica ha creato più lavoro di quanto ne abbia distrutto”.
È la narrativa che cita il luddismo, i cavalli sostituiti dai motori, la macchina da scrivere che non ha eliminato gli stenografi e tutte le transizioni tecnologiche che hanno portato alla lunga a ulteriori incrementi dei posti di lavoro. Ma oggi la situazione è diversa. Non abbiamo più a che fare con tecnologie che riducono gli addetti “a valle” per crearne “a monte”: abbiamo a che fare con tecnologie che a breve non richiederanno più degli addetti, se non qualche supervisore dei processi produttivi di beni e servizi.
C’è poi un elemento importante che molti trascurano: la rivoluzione industriale è stata sia causa che effetto della crescita demografica esplosiva degli ultimi due secoli. La temuta sovrappopolazione si è tradotta nel disporre di più consumatori e più mercato. Oggi questo motore sta rallentando e andrà a spegnersi in tutto il mondo. L’economia globale, però, continua a basarsi su un presupposto che inizia a venir meno: la disponibilità di un numero di potenziali consumatori considerato infinito.
Messa in altri termini: ci siamo dimenticati che l’economia ha la sua ragion d’essere solo nella soddisfazione delle esigenze dell’umanità. Oggi, invece, la maggior parte delle persone sacrifica la propria vita per soddisfare le esigenze dell’economia. Non dobbiamo attendere che l’intelligenza artificiale “ci controlli”: siamo già al servizio di un sistema che mette gli indicatori economici al centro e l’umanità ai margini.
La disoccupazione tecnologica è un altro fenomeno contemporaneo per cui vale il “principio della rana bollita”: un processo inizialmente lento, ma costante, senza shock immediati, che proprio per questo passa inosservato fino a quando non è più possibile porvi rimedio. Il pensiero economico dominante, di impronta neoliberista, preferisce invece confidare nel fatto che lasciando fare al mercato “si aggiusta tutto”, adottando un atteggiamento attendista che al limite cura il malato, ma che si guarda bene dal prevenire la malattia (ed è noto cosa sia meglio).
Con le nuove tecnologie potremmo, se volessimo, rimettere l’umanità al centro. Ma finché continueremo a negare ciò che già sta accadendo — la tecnologia che sostituisce lavoro più di quanto ne crei — difficilmente riusciremo a governare questo cambiamento invece di subirlo.
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Fabio Massimo Rampoldi è autore di Scritti di ALTER EGOnomia, una raccolta di riflessioni sull’impatto delle nuove tecnologie sul lavoro e sulla ridistribuzione del benessere.
La crescita demografica esplosiva degli ultimi due secoli ha innanzitutto portato la distruzione delle risorse planetarie. Non è una mia opinione, ma un fatto verificabile negli ambiti più disparati: dalla diminuzione del numero dei merluzzi, al dissesto idrogeologico che ogni inverno viene riscoperto dai media italiani (dovuto alla costruzione di unità abitative che hanno intaccato gli habitat eradicando alberi e le loro utili radici). In Giappone il governo ha da pochi giorni autorizzato la vendita di armi alla popolazione a causa degli orsi, sempre più presenti in città e villaggi per cercare quel cibo che non trovano nei loro habitat sempre più piccoli, “mangiati” dai giapponesi per i loro usi. Il punto è che la sovrappopolazione è ben peggiore della “automazione” citata nell’articolo, poiché si traduce ANCHE in disoccupazione, oltre che in distruzione ed inquinamento planetario: per riprendere l’articolo: al crescere dei laureati rispetto alla domanda di lavoro la disoccupazione è inevitabile e tangibile e quindi si deve accettare un lavoro tale da non morire di fame (a meno di aver soldi e determinazione per cercare lavoro all’estero). L’automazione o, meglio, il progresso tecnologico è inarrestabile e da sempre teso a raggiungere un obiettivo col minimo delle risorse: alla fine, una macina per il grano di ieri equivale ad una AI che gestisce oggi i dati di un’azienda. Personalmente ritengo che occorra formare la popolazione con occhio lungimirante, anziché demonizzare la tecnologia; e qui ci serve l’EUROPA, con la quale dobbiamo diventare un tutt’uno per poter competere con gli USA e CINA, prima che il divario sia eccessivo (a partire dai server, dai sistemi di pagamento, a finire con le AI)
Certo, non si tratta di un elogio della “sovrappopolazione”, ma di una critica al modello economico dominante che, sia a livello teorico che pratico, non presenta percorsi alternativi alla crescita della produzione. Se gli obiettivi rimangono quelli di una crescita costante, altrimenti si rischia la recessione (e la depressione), bisogna almeno ricordare che tutta questa crescita pregressa è dovuta anche alla crescita della popolazione, ovvero di quell’umanità che ormai viene considerata solo come uno strumento economico, mentre in realtà è il motivo per cui esiste l’economia, oltre a essere il suo “motore”. Negli “Scritti di Alter Egonomia” non propongo di difenderci dalla tecnologia, ma di impostare delle politiche attive per sostituire il lavoro umano con la tecnologia e liberare l’umanità dall’obbligo di lavorare. Un’economia basata sulle esigenze delle persone, in cui le “macchine” lavorano e noi iniziamo a vivere la nostra vita.