Innovazione
Biennale Architettura, la masterclass progressista della strana coppia Ratti & Buttafuoco
La Biennale Architettura 2025, firmata Carlo Ratti, è la prima che si svolge sotto la presidenza di Pietrangelo Buttafuoco, e si intitola Intelligens. Natural. Artificial. Collective
Tra noi che di Biennali ne abbiamo sulle spalle oramai decine spesso è in uso il giudizio: “anche quest’anno la peggiore di sempre” una frase che nasconde quel cinismo che gli italiani usano come un vezzo, convinti di risultare simpatici e distanti dalle cose, e che in realtà manifesta tutta la nostra insicurezza latente e anche la sicurezza certa della nostra marginalità e incapacità di essere nelle cose e farle. La Biennale di architettura 2025, dal titolo Intelligens. Natural. Artificial. Collective curata da Carlo Ratti e prima della presidenza di Pietrangelo Buttafuoco, rispetto a questo mi ha sorpreso molto positivamente e mi sbilancio a dire che è stata una delle migliori che ho visto. Non vi racconterò la solita carrellata di opere nè farò la classifica dei padiglioni preferiti, che potete trovare in tantissime descrizioni e che oramai è più patrimonio dell’immediatezza dei social che dello scrivere, ma vorrei porre a voi alcuni pensieri che mi ronzano dai caotici giorni dell’inaugurazione.
Ratti organizza una rete fittissima di progetti, anche molto diversi tra loro, non necessariamente tutti organici o sistemici tra loro, accetta senza problemi il caos del mondo. Anzi questi progetti spesso si anche confondono tra loro nella moltitudine e nelle loro didascalie molto piccole che affermano indirettamente la fine dell’autorialità – in nome del collettivo o dell’inevitabile emergere del curatore solo al comando? Credo sia lecito essere maliziosi, ma anche che Ratti risponderebbe la prima delle due con una certa sincerità per il poco che l’ho conosco – e nella certificata fine del divismo delle vecchie star che la grandezza della globalizzazione e i nuovi confini della promozione disarticolata e del basso non permettono di sostituire (i Maneskin non sono gli Stones e non lo dico per anzianità, ma proprio per come oggi viene costruito il prodotto).
Quello che emerge da questa serie infinita di lavori è però uno standard di qualità del prodotto, dove il progetto può essere molto diverso, dei video di batteri, un plastico di una facciata verde, un modello di un progetto sostenibile nel Nord Europa o nel cuore dell’Africa realizzato dalla AI, piuttosto che un robot che ti viene incontro, alla fine poco conta, ma in cui resta che la qualità della piattaforma che ospita i singoli lavori resta molto alta, curata nei dettagli, certificatrice di qualità. Analogamente a quanto capita con la somma delle fesserie che pubblichiamo su Istagram che sono però tenute assieme da una piattaforma che è indiscutibilmente ben orchestrata e che non a caso fa il fatturato mostruoso che fa, superiore a qualsiasi compagnia nostrana e spesso di interi Stati messi assieme.
È sempre più evidente che quello che fa la vera differenza oggi sia la credibilità della piattaforma, il dare uno standard alto e su questo creare la vera selezione del materiale, che in altri termini è poi il far giocare giocatori tutti bravi. Scegliendo per il verso logico delle cose e a prescindere da bilancini, dei manuali Cencelli, della fama e gloria dell’uno o dell’altro, nella certezza che non il sano e vecchio buon lavoro e la spesso da noi dimenticata meritocrazia, esiste un futuro ed esaurito un Messi puoi benissimo costruirti un Lamine Yamal. E questo Ratti, che è avvezzo al mondo e che si vede che ha ossatura costruita nel meglio della cultura internazionale, lo mette molto molto bene in campo e al centro del suo fare.
Non è poco e mi pare una dimostrazione molto forte di come si possa, anzi debba, procedere.
Non ho alcun interesse a perdermi nelle eterne piccole polemiche nostrane, anche perché per età so quanto è difficile muoversi nel nostro contesto nazionale e di come sia sempre complesso avere a che fare con tempi strettissimi, finanziamenti risicati, pressioni dirette e indirette per cui il “Todos Cabalero” trova sempre una sua logica, oltretutto io ho grande stima della Guendalina Salimeni che credo abbia anche fatto bene il suo lavoro, ma l’accostamento delle due foto tra l’Arsenale rattiano e il Padiglione Italico è misura perfetta di una distanza tra il nostro paese e il mondo che corre.
Noi siamo quelli che accostano Istituzioni su Istituzioni e al massimo trovano uno spazio simpatico per disegnare con gli acquarelli e le matite colorate cose marginalissime al processo. Cose che non conta che siano vecchie o nuove, utopistiche o che volevano essere concrete, ma che ci appaiono compatte in un indistinto di cui la mancanza di didascalie è ben di più di un lapsus freudiano, è identità stessa del nostro essere tutti assieme nel non contare nulla come categoria.
Ratti invece crea una piattaforma dove i singoli fanno parte di un tutto che dice che esiste un lavoro collettivo e un’intelligenza globale che continua a lavorare, produrre, pensare e che alle tecnologie e opportunità del presente ha piena voglia di riferirsi, con l’ambizione di guidare il processo di trasformazione in atto. Non tutte le risposte sono convincenti, molte domande son sul tavolo da anni e si potrebbe anche chiedere che le soluzioni siano più concrete e solide, ma si vede un fine ultimo, un traguardo possibile, una voglia di guardare avanti l’orizzonte e non solo i piedi.
Il processo che mette in campo sarà perfettibile, ma ha il grande merito di giocare sulla base di uno stratagemma – o forse sarebbe meglio dire una tecnica -, che ho trovato molto interessante e che mi è parsa potenzialmente foriera di possibili grandi potenzialità, ovvero rimettendo al centro il sapere scientifico e la “normalità” dei saperi e della citata qualità.
Appare piuttosto evidente che oggi il problema centrale di ogni visione progressista sia la facilità con cui cose sacrosante (non si ruba, i diritti delle persone, sarebbe gradito non ammazzarsi tra di noi… stiamo parlando di cose basilare, fundamentals si potrebbe dire citando una Biennale di qualche anno fa) è come queste cose vengano tritate da una macchina collaudatissima che le inserisce nel discredito del buonismo facendole passare per cose superate dai tempi e rimandandole a link di esperienze che sono state archiviate come fallimentari – su questo negli anni Ottanta il pensiero era già matura se si rilegge l’incipit di Architecture and Disjunction di Tschumi che con l’amico Ruben traducemmo quando ancora io avevo un sacco di capelli al vento, ovvero secoli fa – e che pone il tutto su un binario morto che ci riporta alla stazione dei treni fermi del tragico di tutta l’impostazione socialista e di quella che era la sinistra storica occidentale.
Preso atto che, nel suo pochissimo, il trumpismo ha spazzato via il solo schema che si è provato da tirar fuori dai resti di quel mondo, ovvero il sommare le varie minoranze che sono si sottoinsiemi sì piccoli, ma motivati, e le uniche esperienze che ancora riescono ad aggregare desideri, appare evidente come sia necessario qualcosa di altro. Questo semplice mostrare come “normalmente” la messa a sistema di persone intelligenti, esperienze positive, studi diversi ma condotti con serietà possa generare un mondo diverso e palesemente con ambizioni di essere migliore (anche solo per il fatto di poter ancora esistere, direbbero alcuni più radicali sui temi ecologici) mi è parso un segnale molto interessante. Molto interessante proprio nella sua poca retorica e nel suo essere “normalmente” altro.
La mia sensazione è che alla complessità della scienza, del fatto bene, della pochissima ideologia ma tanta qualità, diventa molto più difficile rispondere con lo schema becero ma efficace che vediamo in atto ogni volta che il ciuffo più famoso del mondo indica la via, lanciata e decisa, di un antimodernismo, antiprogressismo, fatta di dazi, confini, chiusure.
Che sia una strana coppia di italiani, così diversi tra loro, come il sabauda, silenzioso, progressista e cosmopolita, Ratti e il vezzosamente borghese, filoantico e siculissimo Buttafuoco a proporre uno schema diverso per costruire un “fronte popolare” che ridia una logica e una sua normalità al progressismo oggi mi ha messo di divertito buon umore già camminando verso l’aperitivo e delle piacevolissime cene nelle sere veneziane e continua a distanza di giorni a risuonarmi come una strada possibile per fare delle cose del mondo.
Questo alla fine dovrebbe fare una kermesse culturale e quindi, diciamocelo serenamente, che questa è una delle migliori biennali in tal senso. Via via, prendiamo coraggio e abbandonando i nostri vecchi abiti noiosi e sconfitti, verso un futuro, dovesse anche essere fatto di vapori, funghi, spore e video di bacilli fatti da computer che ci governano, almeno è davanti e non è dietro di noi.
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