
Innovazione
La prassi della transdisciplinarietà
La rivoluzione di bio, nano e info science è ormai diventata adulta e i perimetri dei saperi si muovono continuamente. La sfida per le istituzioni, accademiche e non, è di trasformare i canali della conoscenza da mantra recitato a prassi consolidate.
In una delle tante eredità del Novecento può ancora capitare che a una cena o a un incontro di lavoro venga chiesto: “E lei (o tu) tu cosa fa nella vita?”. Il che presuppone una tassonomia per cui chi ha fatto architettura debba essere architetto, chi giurisprudenza avvocato ecc. Nel frattempo il mondo è andato avanti, le accademie arrancano dietro le locomotive delle tecnologie e i parametri della conoscenza cambiano.
Siamo passati attraverso l’interdisciplinarietà e la multidisciplinarietà, e spesso non ce ne siamo nemmeno accorti, presi dall’identità riempita dai ruoli del lavoro, concetti neanche lontanamente potenti quanto la necessità di un’integrazione profonda tra discipline. Mondi, distinti.
A pronunciare la parola transdisciplinarietà, per la prima volta durante un seminario internazionale, fu Jean Piaget. Psicologo, filosofo e biologo di chiara fama. Psiche, mente, corpo: la nozione che la realtà esiste su più livelli, ognuno con le proprie logiche e specificità, Piaget l’aveva elaborata unendo i puntini nella sua opera di pedagogista e pioniere nello studio dei processi di creazione della conoscenza.
Da tempo la transdisciplinarità è una sorta di mantra. Istituzioni, politici, aziende, pensatori, rettori di atenei, persino chef: tutti ne parlano, tutti la presentano come cifra del contemporaneo. Ma poi, stringi stringi, mica è semplice convincere le persone – e peggio ancora le organizzazioni – a superare la logica dell’orticello. Significa fare ciò che è più complesso, ma anche più significativo e impattante: generare prassi concrete, che innervano i sistemi. E gli esempi virtuosi non mancano. In Germania, l’Università di Leuphana è interamente organizzata secondo questo principio, al punto che tutti gli studenti, indipendentemente dalla facoltà, seguono il Leuphana Semester, un semestre introduttivo transdisciplinare in cui collaborano con aziende, amministrazioni locali e Ong misurandosi con problemi reali. All’università di Utrecht studenti e ricercatori danno il proprio contributo alle Sustainability Challenges, fianco a fianco con imprese e enti territoriali. L’Arizona State University promuove il Global Futures Laboratory e riunisce artisti, scienziati, policy maker, mentre agli studenti offre corsi progettati in maniera transdisciplinare, come Designing the Future, crocevia di scienze dure, umanistiche e sociali.
C’è chi è andato oltre. L’ETH di Zurigo ha creato il Transdisciplinarity Lab per affrontare problemi complessi, come urbanizzazione e gestione dell’acqua e dell’energia: studenti, ricercatori e politici lavorano insieme su problemi reali, inseriti in uno scenario imbastito di metodi partecipativi e system mapping. Per superare le barriere disciplinari il Media Lab del MIT ha addirittura abolito i dipartimenti. Nel progetto City Science urbanisti, ingegneri, sociologi e artisti sviluppano modelli, poi testati sul campo con il contributo delle imprese e delle amministrazioni. Perché liberi da etichette è più facile rispondere a domande del tipo: come progettiamo la città del futuro?
Anche Milano fa la sua parte, dall’approccio “distrettuale” di MIND all’Humanities Design Lab del Politecnico o il Centro Transcrime dell’Università Cattolica, per fare qualche esempio. Attenzione però: qualche progetto illuminato qua e là non è sufficiente. La svolta transdisciplinare la devono fare, prima di tutto, gli individui. Specialmente quelli che si stanno formando ora, in un mondo caratterizzato da problemi sempre più complessi e intrecciati. Lo ha compreso bene il METID, Metodi e Tecnologie Innovative per la Didattica del Politecnico di Milano, che sta esplorando il potenziale dell’AI nello sviluppo di strumenti di apprendimento e autoapprendimento sempre più personalizzabili e adattivi, flessibili in base agli obiettivi degli individui.
Mettere strumenti avanzati nelle mani delle persone che vogliono imparare è cruciale per formare in maniera transdisciplinare. L’AIBook “Imparare con l’AI”, di Susanna Sancassani e Daniela Casiraghi, un GPT personalizzato interrogabile dell’utente/studente usando il linguaggio naturale, è una rappresentazione tangibile di questo concepire l’apprendimento come un percorso personale, una traiettoria diversa per ognuno e tracciata secondo la propria sensibilità e obiettivi. L’apprendimento come una nave rompighiaccio attraverso saperi e ambiti diversi, che permette di costruire una identità culturale e professionale meno vincolata dalle barriere tradizionali delle discipline e dei silos verticali del sapere. Con l’aiuto dell’intelligenza artificiale, in questo caso un buon mentore, dialogico e instancabile, con una certa inclinazione a comprendere e a suggerire.
Non stupisce allora che PoliMI sia anche capofila del progetto nazionale Edvance, federazione di atenei italiani e piattaforma (finanziata dal PNRR) che da fine febbraio eroga gratuitamente MOOC, Massive Online Open Courses, dunque corsi tematici online, lavoro che il Metid da anni svolge con ottimi risultati. Saperi a cui puoi accedere liberamente, che tu sia uno studente, un NEET, un cittadino attivo, un curioso, un pensionato. È un tentativo: di allentare la presa delle mere logiche di scuderia, di reinterpretare il ruolo delle università come centri di produzione e distribuzione del sapere. E anche di mettere a terra una transdisciplinarità di sistema, per così dire. Di impiegare la potenza di fuoco degli atenei per contribuire alla creazione di un habitat in cui sia più facile valorizzare le capacità degli individui di integrare autonomamente alcune conoscenze nel proprio, personalissimo, percorso formativo. Un buon punto di partenza, un ottimo segnale. Come deve essere un mantra che sta diventando prassi.
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