
Innovazione
Milano e un altro software
La mostra “Tools” appena conclusa all’ADI ha messo sui (moltissimi) tavoli competenze e strumenti di lavoro legati al saper fare. Un altro software del tessuto della città tra materia e digitale, lavoro manuale e progettazione contemporanea, bottega e accademia.
Nella lunga dialettica tra l’imparare, associato prettamente alle facoltà cognitive, e l’apprendere, che presuppone un approccio più legato a modelli esperienziali, negli ultimi anni il vincitore morale è l’apprendere, mentre l’erogazione e la distribuzione dei sapere passano ancora per l’imparare.
In questa diatriba che vede diverse scuole di pensiero rispetto alle urgenti trasformazioni di cui avrebbe bisogno tutto il sistema della produzione della conoscenza – nessun livello scolastico si può chiamare fuori – si è conclusa domenica all’ADI Design Museum a Milano, la mostra “Tools, il saper fare a regola d’arte”, a cura di Alessandro Mininno, Stefano Mirti e Irene Turcato. Cito testualmente la sinossi del progetto.
Una mostra che celebra l’artigianato e la manualità come elementi centrali nell’innovazione contemporanea. Il museo si trasforma in un laboratorio interattivo dove artigiani, designer e professionisti mostrano dal vivo tecniche e processi, coinvolgendo il pubblico in un dialogo diretto con il fare.
Detto così potrebbe sembrare una celebrazione un po’ passatista dell’artigianato del Belpaese. Di fatto rappresenta invece un deciso passo avanti di un pensiero che si sviluppa su piani diversi. Prima di tutto il rapporto con la materia e l’interazione con essa, assolutamente informale ma soggetto a competenze quasi sempre specializzate. In secondo luogo, la possibilità di avere un’interlocuzione paritetica con la mostra stessa, attraverso la co-progettazione nei tantissimi workshop che costruiscono il tessuto della proposta. Terzo, e foriero di ragionamenti, il tema dell’educazione e dei suoi sottoinsiemi – istruzione, formazione e didattica – al centro della proposta.
Gianni Rodari diceva che noi stiamo alla lingua come il pesce vive nell’acqua, mentre Bruno Munari considerava la manualità una parte imprescindibile della progettazione, a partire dal disegno. Due punti di osservazione ancora assolutamente complementari. “Tools”, nei suoi venti giorni, non ha condotto una celebrazione del saper fare in senso museale, come ancora troppo spesso accade. Ha invece messo, sui (moltissimi) tavoli competenze che spaziano dal mondo del lavoro a quello del non lavoro, dell’ozio, delle passioni, delle occasioni mancate, del tempo che fugge o che teme la noia. Ha messo insieme la materialità e le abilità, perfino i tools – appunto – necessari alla poesia con Maurizio Cucchi.
Tanti strumenti di lavoro, cassette di attrezzi più o meno metaforiche che, senza le conoscenze e le esperienze dei maestri anche digitali, non possono innescare le innovazioni. Perché la scommessa era il lavoro computazionale o digitale con la stampa, i tessuti con il saper fare tecnologico e tante altre esperienze con cui confrontarsi, provare, sbagliare, imparare. Apprendere, appunto, a prescindere che questa conoscenza serva per entrare o migliorare delle competenze che sfocino nel lavoro, o che invece siano il veicolo per aiutare giovani e meno giovani in cerca di approcci meno scolastici appunto, o non nozionistici. Oppure costituiscano sceneggiature di vite che non presuppongono un lavoro.
Un umanesimo del fare che, con tanta passione e sensibilità, i curatori hanno saputo far emergere, ponendo allo stesso tempo un interrogativo molto grande, oserei dire universale: che cosa vuol dire essere un museo nel Terzo millennio. E quale è il ruolo che gioca la biodiversità di competenze? In fondo, esse tolgono lo scettro al curatore, che, da regista troppo spesso onnipotente si trova ad avere un ruolo di mentore, il cui compito è aiutare a far emergere ciò che le persone, la città, il mondo hanno già in pancia, nelle mani, nella testa, nel cuore.
Qualche anno fa, anche sulla scia di una tendenza che arrivava da riflessioni di sociologi americani come Richard Sennett e di costruttori di mondi crossmediali come Chris Anderson, e sintetizzata nella parola maker, a Milano sono stati pianificati alcuni FabLab, luoghi preposti a mettere insieme competenze digitali e saperi provenienti dall’artigianato. Hanno intercettato per un certo periodo molte realtà interessanti che agiscono in città. Ma, come delle piantine che non attecchiscono, non sono cresciuti abbastanza. L’esplosione del turismo, strada sorprendente e forse anche più facile per una Milano fino a pochi anni fa scarsamente orientata in questa direzione, ha messo un po’ in secondo piano questo lodevole tentativo. Trascurando il fatto, oggi ancor più centrale, che era un approccio a non escludere, a cogliere e valorizzare quello che Milano, con le sue tante risorse, riesce a inventarsi anche nei suoi angoli meno illuminati. Un campo frammentato e con tanta storia, come in molte altre parti in Italia, che costituisce una parte importante del software della città, nel quale unire i puntini può voler dire dare una tassonomia e un profilo alla città stessa e al suo futuro. Un altro software diffuso, fatto di pratiche, di saperi, di uno sguardo sul lavoro che è più distante e più curioso dei mainstream che hanno caratterizzato gli ultimi decenni. Un software che unisce, guarda verso mondi minoritari che resistono e verso i quali occorre avere più attenzione e riguardo.
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