Lavoro

I nuovi poveri lavorano

C’è un’Italia che timbra, produce, consegna, cura. Ma non riesce ad arrivare alla fine del mese. La chiamano “occupazione”.

25 Maggio 2025

I nuovi poveri lavorano. Portano pacchi. Puliscano uffici. Assistono anziani. Servono ai tavoli. Saldano, cucinano, sorvegliano, curano. Lavorano anche di notte. Anche a Natale. Anche con la febbre. Non hanno ferie pagate, né tredicesima. A volte neppure un contratto vero. Ma lavorano. Senza proteste, senza cartelli, senza scioperi. Perché non possono permetterseli. Hanno figli da mantenere, affitti da pagare, mutui da onorare. E ogni ora vale troppo per essere sprecata in una rivendicazione che nessuno ascolterebbe. Non vivono. Corrono da una parte all’altra della città. Dormono poco, mangiano male, aspettano bonifici che arrivano sempre in ritardo. Non chiedono molto. Ma ogni giorno è una lotta per tenere insieme tutto. Il tempo, la dignità, la salute. Lavorano, ma non si sentono utili. Si sentono ingranaggi sostituibili. Pezzi. Funzioni. Numeri.

Non sono “disoccupati”. Non sono “assistiti”. Sono lavoratori veri. Solo che nessuno li vede. Perché non rientrano nelle narrazioni ufficiali. Quelle dei bollettini economici, degli editoriali sull’occupazione, delle interviste ai manager. Non parlano di loro, questi testi. Parlano del “mercato del lavoro”, come se il lavoro fosse una merce. Parlano di “produttività”, come se la vita fosse un bilancio. Parlano di “flessibilità”, come se il dolore potesse essere contrattato.

E intanto loro ci sono. In silenzio. Sottotraccia. Nei numeri in piccolo, nelle note a piè pagina. Vivono in case in affitto dove manca il riscaldamento, dove i figli dormono in due per stanza. Fanno la spesa guardando i prezzi. Rinunciano al dentista. Alla vacanza. Alla cena fuori. Vivono in città dove tutto costa troppo per chi guadagna troppo poco. Si alzano presto, non si ammalano mai. O se si ammalano, si curano da soli. Perché fermarsi vuol dire perdere il posto.

Li chiamano “precari”. Ma non è solo una condizione contrattuale. È un modo di vivere. Un’ansia costante. Una paura che si infila nelle ossa. La paura di non farcela. Di non essere abbastanza. Di perdere anche quel poco. Di scivolare un gradino più sotto. Perché sotto c’è la povertà. Quella vera. Quella che non perdona.

La politica parla di occupazione. Ma non parla di salario. Le imprese parlano di eccellenza. Ma si fondano sulla catena. E la catena non è mai gentile. Nessuno racconta gli interinali. Nessuno racconta gli operatori delle pulizie, le educatrici delle cooperative, i turnisti delle fabbriche in provincia, i portapasti, le badanti, i rider. Eppure, il Paese cammina grazie a loro. Sono la spina dorsale che regge tutto. Ma non compare in nessuna foto.

L’Italia è piena di persone che lavorano per restare povere. Che hanno un contratto, ma non una vita. Che hanno una busta paga, ma non una sicurezza. Che hanno un badge, ma non una prospettiva. Sono milioni. E sono stanchi.

La chiamano “occupazione, ripresa”. Ma è la nuova povertà.

E allora bisognerebbe iniziare a dire la verità. Che il lavoro non basta più. Che serve un lavoro che permetta di vivere. Di fermarsi. Di crescere. Di scegliere. Perché senza questo, non è lavoro. È solo una forma più elegante di sopravvivenza.

Lavorano, ma non vivono. E noi, continuiamo a chiamarla economia?

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