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Lavoro

Lo sciopero sociale. Visto da dentro

di Alexis Paparo
14 Novembre 2014

È già tutto finito. Neanche il tempo di smontare il palco in Piazza Duomo, di far spostare i banchi con le magliette di “Che” Guevara. Un gruppo di ragazzini tedeschi si fotografa con una bandiera del sindacato abbandonata poco lontano. E si diverte un sacco a sventolarla. I flash di compatte e smartphone che inquadrano volti sorridenti incastonati in un pezzo di Duomo hanno già sostituito le reflex dei giornalisti che puntavano all’onda rossa della Cgil e della Fiom. Tanti erano tanti, quelli arrivati dal Nord Italia per lo sciopero sociale  che il 14 novembre  ha unito i metalmeccanici della Fiom a giovani precari, disoccupati, freelance, e studenti. Ma di questi tempi, non è che si faccia una gran fatica a riempire le piazze. C’erano gli operai, certo, quelli che “Il jobs act è una barzelletta”, “siamo qui a protestare per tutti, anche per te, anche per i diritti dei giovani”, “la manifestazione è andata benissimo”, la Fiom è l’unico sindacato che cerca di difendere i diritti dei lavoratori”. Gli operari che, scavando e nemmeno troppo, ti dicono “ormai protesto da 15 anni sempre per le stesse cose”, “ La Cgil ha sbagliato, non è stata attenta verso il mondo dei giovani e dei precari”, “dal sindacato non mi aspetto niente perché ormai sono disilluso”. Di proposte se ne sentono poche: un generico “lotte”, un ancor più generico “facciamo quello che si riesce a fare”. Il tutto avvolto da un incerto “non è che cambierà qualcosa, comunque stiamo dando un segnale al governo: qui  c’è della gente che non la pensa come loro”. E  infiocchettato da uno straniante “Renzi è andato al governo con il voto di questa gente qui (indicando i manifestanti ndr). Gente che adesso non lo voterebbe più”. C’ erano gli studenti in manifestazione contro Expo, “un bellissimo progetto che però l’Italia, con la mafia e tutto, non è in grado di portare avanti”, contro la riforma della scuola, contro il sindacato “che è dispersivo e non funziona senno tutti questi problemi non ci sarebbero” senza pensar troppo al fatto che insieme a loro hanno condiviso la giornata di manifestazione. Gli studenti che “siamo qua perché ci crediamo, ci speriamo, dopo un po’ ti scoraggiano…”, gli studenti che volevano andare ad ascoltare “le cazzate che dice la Giannini” in Arcivescovado, dove era in corso il convegno della Conferenza episcopale italiana (Cei) sulla “Buona scuola” e si sono scontrati con la polizia che voleva invece fermare il corteo. Sotto gli elmetti visi di trent’anni, poco meno o poco più,  non tanto diversi da quelli dall’altra parte degli striscioni. Non tanto più garantiti di loro. C’erano i ragazzi del centro sociale “Il Cantiere”: per i quali “la politica e Renzi pensano solo ai propri affari,  danno soldi per pochi e a niente per tutti gli altri” e la risposta migliore è l’auto-organizzazione dal basso. A margine quelli che la manifestazione l’hanno subita: c’è la signora incappottata che “Lei è stata alla manifestazione?” No no,  ma guardi tra una roba e l’altra… è meglio non pensare niente…”. C’è l’impiegato in trench moderatamente infastidito dal “casino”, che non sapeva della manifestazione, non vota da anni, vede solo problematiche e nessuna soluzione. E soprattutto incrocia le dita per il suo, di posto. Mi viene da fare il confronto con la Piazzale Loreto dei Forconi, quasi un anno fa. Anche lì si era protestato, per giorni, si voleva bloccare l’Italia, si voleva cambiare, si volevano risposte. Oggi mi è sembrato che la piazza fosse più dolente che incazzata. Più stanca. Più disperata. Con meno aspettative, e forse più facile da conquistare. Una massa di persone che mette un giorno in fila all’altro, nella speranza che non deraglino troppo. Una massa di persone che ha un disperato bisogno di credere e riconoscersi in qualcosa. Come ha scritto Jacopo Tondelli, di questa disperazione, in un contesto diverso ma non troppo,  si sta occupando Matteo Salvini.  La piazza di oggi Matteo Salvini non lo seguirebbe mai. Ma l’altro Matteo può accontentarsi così?

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