Stefano Bartolini, studioso della economia della felicità

Macroeconomia

Stefano Bartolini, ambasciatore dell’economia della felicità: “Meno solitudine per un mondo migliore”

11 Agosto 2025

L’esordio della carriera del professor Stefano Bartolini rimanda al mondo accademico dei primi anni novanta, lontano dalle odierne teorie sulla felicità applicate all’economia. L’università dell’epoca, nella quale il docente frequenta un dottorato di ricerca, vive cristallizzata dentro dipartimenti chiusi nei quali è difficile mettere in discussione convinzioni teoriche radicate da decenni. È il clima che nei primi anni di lavoro anche Bartolini respira con l’influenza di modelli macroeconomici fortemente orientati alla crescita del Pil, gli stessi che lui descrivere parlando della centralità dei soldi come unico strumento di benessere.

A un certo punto nella sua storia irrompe però l’Africa. Diversi viaggi nel continente nero scardinano le certezze acquisite nelle stanze universitarie e aprono il varco a nuove frontiere dell’economia che avvicinano il profitto al benessere sociale e alla agognata felicità. La metamorfosi africana è figlia di una realtà che il professore di economia all’Università di Siena vede con i propri occhi: nel continente più povero del mondo la gente è più serena, trasuda felicità. A differenza dei popoli occidentali dominati da solitudine, ansia e depressione. Bartolini quando ricorda quell’epoca parla di bambini figli dell’Africa che, a differenza degli europei, vivono in una dimensione di benessere che li spinge, nonostante l’indigenza, a non piangere quasi mai.

E l’inizio di un impegno di studio speso nella ricerca dell’equilibrio tra prosperità economica e benessere che lo accompagnerà per tutti gli anni a seguire. La sua missione, prevedibilmente, diventa anche una crociata contro quel mondo del sapere autoreferenziale che lo considererà per un lungo periodo un “eretico”.

Dovranno trascorrere diversi anni affinché l’establishment accademico decida di considerare le relazioni umane una leva di sviluppo oltre i tradizionali indicatori di ricchezza come il Pil. Perché al centro dei modelli studiati dal docente di economia di origini toscane ci sono proprio le relazioni, fonte inesauribile di felicità. L’Africa ne è un chiaro esempio con comunità, famiglie e vicinati coesi, lontani dalla solitudine occidentale diventata un problema di massa.

La battaglia per l’affermazione di un’economia della felicità lanciata dal docente toscano inizia in questo modo la sua lenta ascesa approdando al lavoro prodotto da due premi nobel al quale si aggiungono contributi scientifici crescenti, epidemiologici in primis, che dimostrano un parallelismo tra miglioramento delle relazioni sociali e crescita economica.

La solitudine, per converso, continua a fare più vittime del fumo. L’antitesi alla socialità che crea prosperità è il clima occidentale deteriorato nella qualità della vita e in molti altri ambiti comuni. La reazione delle popolazioni ad un sistema così compromesso non può che essere di chiusura, con una risposta che gli economisti del gruppo di studio guidato da Bartolini hanno ricondotto al fenomeno della spesa difensiva. In sostanza contro la decrescita sociale la gente è spinta a difendersi azionando la leva del danaro che alimenta il circolo vizioso.

L’esempio dei bambini ritorna anche in questo caso: a una infanzia vissuta nel pieno della socialità e dentro le comunità, modello del nostro passato, se ne contrappone una che prevede il ricorso a un’assistenza a pagamento e alla centralità pedagogica degli oggetti che provano a compensare la solitudine.

La stessa parabola che investe la terza età, dominata da anziani sempre più soli, che si ammalano con costi a carico della collettività, costretti a ricorrere al denaro per sostenersi e mitigare una qualità della vita in declino.

Il vortice della spesa difensiva investe anche l’ambiente creando un pessimismo diffuso. In questo ambito appare emblematico il caso dell’inquinamento dei mari che con il suo acuirsi imporrà costi di compensazione sempre maggiori. Il paradosso proposto dagli studiosi è che gli oneri difensivi creano ricchezza con maggiori spese del paese, incremento del lavoro e del Pil, tutto questo a costo di una spirale sociale regressiva.

L’elemento di contraddizione che inevitabilmente finisce per rallentare il processo di cambiamento. L’economia felice, così facendo, rimane in parte un miraggio ma non tutto è perduto. Un nuovo umanesimo economico è ancora possibile, a patto che anche la politica lo voglia. Ecco la nostra intervista a Stefano Bartolini, il professore ambasciatore della felicità.

Professore, in un mondo che marcia ad una velocità differente dalle sue teorie è ancora possibile prefigurare uno scenario alternativo, a un’economia che punti alla felicità delle persone?

“Direi di sì! Il cambiamento passa da una visione del mondo che necessita di una sostituzione di lenti imposto da uno scenario di riferimento completamente rinnovato. Il cambio di rotta presuppone un ribaltamento di paradigma nella governance di settori “chiave” dell’economia come urbanistica, scuola, impresa e sanità”.

Da dove partiamo?

“Inizierei parlando dell’urbanistica. Oggi viviamo in un mare di solitudine urbana. Il tessuto sociale da sempre si crea nelle strade, nelle piazze e nei luoghi comuni. L’avvento delle auto, tuttavia, ha distrutto questi presidi lasciando il posto a luoghi rumorosi, pericolosi e inquinati. Città come Amsterdam o Copenaghen e molte altre capitali del nord Europa hanno bandito le auto che sono state sostituire dai mezzi pubblici e le biciclette favorendo un driver insostituibile di socialità. I bambini in Olanda vanno a scuola da soli”.

Professor Bartolini, anche il sistema scolastico è da sempre al centro delle sue analisi…

“Il nostro modello formativo si fonda su programmi incompatibili con sistemi di benessere diffuso. L’istruzione italiana forma al possesso e la competizione premiando gli allievi con un voto individuale. Le scuole montessoriane dimostrano che un sistema formativo alternativo è possibile con classi miste che non prevedono voti e creano modelli di cooperazione trasversali alle età. È risaputo che su larga scala gli studenti montessoriani risultano più felici, socievoli e civici rispetto a quelli provenienti dagli istituti del mein stream”.

L’altro grande filone della responsabilità sociale è in mano alle imprese. A che punto siamo?

“Anche il mondo del lavoro negli ultimi decenni ha cambiato le proprie parole d’ordine in competizione, incentivi, controllo e conflitti alimentando la cultura dello stress. Il mercato anche in questo caso ci dimostra che un sistema alternativo è possibile, partendo dall’esperienza italiana messa a punto da Adriano Olivetti, oggi replicata da molte realtà della Silicon Valley. Anche numerose piccole imprese nazionali si sono allontanate da schemi competitivi esasperati. L’alternativa passa da sistemi aziendali che puntino al coinvolgimento, a favorire il senso di responsabilità, creare partecipazione e appartenenza”.

L’ultimo pilastro di un’economia della felicità è quello sanitario, un tema che rischia di implodere sotto il peso della crescita dell’età media. Anche in questo caso è necessario agire sulla leva della socialità?

“La salute delle persone sta peggiorando, lo dicono le statistiche. Le determinanti principali del rischio di malattie non sono solo quelle note come il fumo o un regime alimentare poco sano. I fattori di rischio più impattanti sono l’infelicità e la solitudine, esistono studi epidemiologici che lo dimostrano. Investire sul miglioramento delle relazioni e sugli ambiti sociali consentirebbe alla gente di ammalarsi meno e la spesa sanitaria subirebbe una importante contrazione”.

La politica che ruolo ha in questo processo di cambiamento sistemico che porta alla economia della felicità?

“Tutte le riforme che ho citato devono essere condotte dal sistema politico. Credo che la nostra attuale classe dirigente non abbia la cultura e il coraggio per intraprendere scelte tanto decise. La nostra cultura politica affonda le radici nel ‘900, tutti i problemi concomitanti sono molto più recenti. Occorre un’altra mentalità, una coscienza rinnovata. La sinistra continua a parlare di equità, la destra scommette sul capitalismo pensando che sia il traino dell’intera economia. Il punto nodale è che questo capitalismo fa male a tutti indistintamente, questo dovrebbe spingerci a capire che quelle soluzioni proposte non risultano più valide”.

 

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