Trasporti
Le polemiche sulla cabinovia di Trieste e una domanda generale: che fine ha fatto il futuro in Italia?
Vorrei fare un ragionamento generale, direi strategico, su chi siamo e cosa vogliamo o su “quello che non siamo e non vogliamo” a partire dal progetto per una cabinovia a Trieste. In città non si parla d’altro da alcuni anni, ma siccome nel resto del mondo è probabile non si sappia neppure che c’è un progetto, vi anticipo brevemente che è un qualcosa già immaginato durante il lungo Governo Militare Alleato dopo la Seconda Guerra Mondiale, e partito effettivamente in questa configurazione nel 2020. È stato finanziato dal PNRR nel 2021 e da lì ha seguito un iter molto complesso pieno di pause, cambi di indirizzo, riposizionamenti, manifestazioni, ricorsi. Si tratta di una cabinovia urbana che attraverserebbe la gigantesca area del Portovecchio, un luogo che dopo secoli di chiusura sta iniziando un suo percorso di riqualificazione, e dovrebbe proseguire poi verso il territorio carsico connettendosi a Opicina, località centrale di un sistema territoriale dove passa anche una forte connessione viaria. Questo ultimo tratto, il più contestato, passa davanti a delle zone di pregio e necessita di interventi ambientali delicati, in una zona vincolata e complessa trovando la ferma ostilità di una fetta importante di popolazione che da anni contesta l’opera.
È recentissima la notizia che il TAR ha dato parziale ragione ad alcuni dei molti ricorsi fatti contro il progetto della cabinovia di Trieste, toccando maggiormente alcune autorizzazioni ambientali e suscitando toni trionfali da parte di molti dei comitati del No e delle opposizioni politiche. Io non mi sento così esperto e competente nello specifico per analisi tecniche, men che meno giuridiche, oltretutto credo di avere anche dei personali dubbi sull’opera specifica o almeno alcune sue parti, ma ci sono alcune cose, che se mi si permette un gioco di parole, stanno “a monte” dell’opera che trovo evidenti e meritano di essere dette.
Come premessa voglio annotare anche che per ragioni personali sono cresciuto vedendo la straordinaria crescita degli impianti a fune che hanno trasformato alcuni territori e dato incredibile accelerazione all’economia di quelle che erano zone molto povere e oggi sono, anche grazie al coraggio, all’innovazione e alla scommessa su progetti visionarie a cui la maggioranza era spesso contraria, le zone più ricche e piene di benessere diffuso del nostro Paese. Questa è una nota che viene dall’esperienza personale, legata sicuramente a territori diversi, ma mi resta addosso la mentalità positiva, il coraggio, l’audacia come cifra versus la sfiducia del futuro, il lamento, il gusto del no. E io sto con i primi, da sempre e direi auspico per sempre, perché spero davvero di non diventare un vecio triestin brontolon, categoria molto in voga in città, ma direi in ogni latitudine italica declinata poi nei suoi vari genius loci.
Comprendo che ormai tutti sanno tutto, ma quando si dice che le sentenze si commentano dopo averle lette la cosa dovrebbe valere per tutte le sentenze, non solo quelle che ci fanno comodo, pena la perdita di credibilità e coerenza, una malattia grave della politica e della società attuale che porta solo a sfiducia diffusa, disaffezione per la cosa pubblica e trionfo degli individualismi, posizioni peraltro che non portano nessun voto, men che meno al centrosinistra, che da tale posizione, a mio vedere, dovrebbe sempre stare lontanissimo. Pare una banalità, ma la sistematica distruzione di credibilità e autorevolezza istituzionale e di ogni sapere tecnico, la certezza con cui si sente dire che quello è stato pagato troppo, quella carta si doveva fare così, quello lì non sa fare colì è una cosa devastante. Sarà che facendo una libera professione tecnica vedo quanto è difficile muoversi nelle leggi e regole italiane e vedo quanto la cosa sia drammatica dal punto di vista degli investimenti e del nostro futuro, visto che è evidente come la questione dell’eterna incertezza amministrativa sia strettamente correlata con la fuga sistematica di tutta la parte migliore della popolazione e l’impossibilità di dare certezza e programmazione alla crescita e quindi ad un aumento dei salari, che dovrebbero essere i principali problemi di cui occuparci. Se anche fosse solo questo a muovermi una umana solidarietà verso chiunque provi a fare qualcosa, mi parerebbe un argomento più che legittimo, come trovo che sia da discutere l’enorme disagio nell’isolamento in cui si sentono molti di noi che si ostinano, pur con crescente stanchezza, a progettare, lavorare, inventare attività, creando e dando poi lavoro anche ad altri.
Poco mi interessa l’argomento specifico, che sia una cabinovia a Trieste o i recenti casi dell’urbanistica milanese, dove alla fine si guarda agli stessi particolari con una perversa passione per gli errori e le anomalie del tutto dimentichi della visione di insieme e, quindi, senza vedere e intuire le conseguenze del massacrare quella che, a me come a molti, pare come la sola vera grande area di spinta economica e di trasformazione sociale del nostro Paese. A Milano, esattamente come la cabinovia di Trieste, e negli altri mille casi analoghi, ci sono certamente delle cose, magari tante, che non vanno – in cui credo sia giusto indagare su possibili mancanze e illeciti – resta però che lo sguardo andrebbe sempre posto in avanti. In un Paese che ha metà del suo territorio con presenza di abusi, piccoli e grandi, che sfiora il 40–50% del costruito e in cui qualsiasi opera si fa in tempi talmente lunghi da vanificare spesso l’opportunità di investimento già su carta, che un edificio si costruisca con un titolo edilizio semplificato dovrebbe essere il minore dei problemi, esattamente come il problema reale è che un’opera di mobilità debba superare più di 100 passaggi amministrativi e che sia bloccata da una sentenza del TAR su una sua parte dopo 5 anni di iter, direi molto più dell’opera stessa.
L’opera, per sbagliata, orribile, amministrativamente zoppicante, appare sempre in qualche misura rimediabile, la distruzione della ragione di investimento e del pensare a fare le cose, invece, è un tumore che non lascia via di scampo al Paese tutto.
La giustizia, spesso lenta, fa il suo corso ed è giustissimo che sia così, ma la politica, che sia governo o opposizione, ha nella sua funzione capire e proporre come governare i processi. Se questi palesemente non funzionano vi è un problema enorme, che non può produrre alcuna soddisfazione o giubilo.
L’orizzonte, come lo vedo io, ma mi chiedo sempre più spesso se sono il solo, è che stiamo facendo, nel giubilo e con i voti di tutti gli schieramenti, la più grande operazione di debito della storia di questo Paese. La stiamo facendo, per giunta senza crederci minimamente, in Paese già fortemente indebitato, cosa che ci rende poco agili alle trasformazioni economiche, che invece sono urgentissime e urgenti in questi anni nel mondo. E stiamo facendo questi enormi debiti – che non ho grossi problemi a dire che a me sembrano, per conoscenza di alcuni ambiti, molto spesso privi di un vero senso – sulla base di un tempo di realizzazione delle opere che prevede di fare in 3-5 anni cose che di media in questo Paese si fanno in 10 se va bene. Del resto, la media di un’opera pubblica italiana è vicina ai 12 anni, mentre negli altri Paesi europei attorno ai 6-7, nei Paesi che oggi corrono siamo sotto i 3-4: e guarda caso lì va a vivere e lavorare la nostra “meglio gioventù”, che parte volentieri e non torna indietro quasi mai. In tale disastro cosmico, giubilare perché qualsiasi cosa, fosse anche la peggiore del mondo, dopo gli anni che si sarebbero dovuti usare per finirla sia ancora in una fase interlocutoria di progettazione è semplicemente drammatico. Anche perché la sentenza parziale rimanda a dover appena integrare nuove carte, nuovi pareri, nuove sentenze e nuovi ricorsi, per cui si taglieranno più alberi per impaginare i giornali su cui fare dichiarazioni ora sdegnate ora trionfali di quelli che si taglierebbero per costruire una piramide vicino all’opera stessa.
Tutti i dati sulla mobilità sostenibile, i trend sulla necessità dei trasporti collettivi, il successo logico e i vantaggi in termini ambientali, di consumo di suolo, di consumi energetici che il trasporto urbano su fune dà, mi sembrano qui risibili allo stesso livello delle criticità che possiamo avere in questo progetto, delle sue carenze. Il punto che invece mi appare monumentale e ciclopicoè: che fine ha fatto il futuro in questo Paese?
Che fine ha fatto o, se preferite darvi un minimo di speranza, sta facendo il progressismo in Italia? Io sarò cieco, ma i numeri di qualsiasi sondaggio di consenso o discussione in qualsiasi bar mi sembrano corrispondenti, non riesco a immaginare che terreno possano immaginare di trovarsi sotto i piedi le parti che si reputino progressiste in tale contesto. Parti progressiste che siano di tradizione socialista o liberale, cattoliche o persino quelle ex comuniste che in questo Paese sono state, con mille contraddizioni, al centro dei maggiori processi di trasformazione e modernizzazione sociale, economica e culturale (quando da poveri siamo diventati ricchi…). Come possono i progressisti non vedere che non vi è spazio di consenso e spazio politico se si combatte contro, si giubila perché siamo fermi dopo che nello stesso numero di anni che in un Paese vicino un qualsiasi investimento deliberato e finanziato sarebbe stato realizzato? Perché non si vede che questo corrisponde in modo perfettamente sovrapponibile con i trend elettorali? Perché non capire il fatto che se nessuno vota più non si vince rafforzando i propri orticelli contando sul numero calante del quorum, ma misurandosi in voti e non nelle % (comunque in calo, per altro)? Come non vedere che questo procedere è del tutto miope, non solo perché privo di ogni idealità, ma proprio perché massimamente penalizzante per lo strato sociale che esprime maggior richiesta di valori.
Come può bastare la soddisfazione di fermare un qualcosa, anche se lo si reputa sbagliato, inutile, dannoso, rispetto al perpetuare un disastro totale che rende impossibile qualsiasi cosa? Sono solo nel vedere che questo crea una distanza incolmabile con ogni parte progressista ed economicamente interessata alla crescita della società e una frattura culturale profonda e incolmabile, che porta non solo ai numeri oramai maggioritari a livello assoluto di astensionismo, ma al rifugio dei pochi progressisti che ancora votano verso una destra che può serenamente dirsi molto conservatrice per accontentare la sua di parte storica, e che questo porta a rallentare maggiormente ogni processo di cambiamento e adeguamento ai ritmi e le modalità di lavoro e di aspettativa di vita della popolazione più dinamica e qualificata?
Dove andranno quelle tante eccellenze italiane che hanno costruito questo grande Paese, dove faranno i loro investimenti dovendo scegliere tra un Paese che applaude ogni sospensione, rallentamento e stop e luoghi dove si vede la parte di crescita che è sempre sull’altro lato della medaglia? Solo a me sembra così non strano pensare che investono e sempre più investiranno altrove e li assumeranno, creeranno i loro nuovi stabilimenti, uffici, lì sposteranno le loro sedi fiscali e li lavoreranno i nostri figli e i nostri nipoti?
Figli e simpatici nipoti che una società stanca, vecchia, sfinita finirà a salutare la sera in videocall, non credo sentendosi davvero più felice, anche se fiera di aver fatto FORSE pagare – peraltro forse, perché l’incertezza regna in Italia sempre sovrana – maggiori oneri ad un PDC, fatto rifare alcuni allegati di una VINCA o di altri acronimi di cui spesso non sanno neppure il significato e, davvero quasi mai, l’iter.
Vi è un passaggio, che ha avuto un ruolo culturale importante per molti in Italia, in cui Walter Benjamin descrive l’Angelus Novus che ha visto in un quadro di Paul Klee dove si descrive in maniera lucidissima come il futuro sia facilmente una catastrofe che accumula rovine su rovine, ma qui ci stiamo dimenticando che vi è una tempesta così forte che neppure una creatura soprannaturale come un Angelo può trattenersi. Il progresso è questa tempesta ed è inarrestabile. Il progresso porta con sé contraddizioni, infinite difficoltà, ingiustizie e disastri, ma è il nostro spazio vitale, il solo luogo in cui possiamo essere qualcosa.
Tradire questo significa condannarci all’oblio della irrilevanza.
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