Il dolore della parola
Tre croci è il penultimo romanzo del grande scrittore senese Federigo Tozzi (1883-1920), vergato di getto nel 1918 e pubblicato nel 1920, poche settimane prima della sua prematura scomparsa. Il punto di partenza è costituito da un recente fatto di cronaca locale: il suicidio di Giulio Torrini, libraio antiquario travolto dai debiti, cui seguiranno nel giro di pochi anni le “male morti” dei fratelli Niccolò ed Enrico. Tozzi ne aveva già riferito in un articolo uscito nel 1915 su La Vedetta Senese e decise di scriverne tempo dopo un romanzo, mantenendo inalterati i nomi di battesimo degli sventurati compaesani ma mutando in Gambi il loro cognome.
Tre croci, rispetto ai precedenti Con gli occhi chiusi (1919) e Il podere (1921), è meno autobiografico e sicuramente mette a frutto i consigli dell’amico e sodale Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), che lo orientava verso uno stile più distaccato: non a caso Aldo Rossi lo definisce “un romanzo oggettivo toto coelo“. Tuttavia vi ritornano temi e spunti profondamente radicati nella sua poetica: anche qui, infatti, i protagonisti vivono separati e dissociati dalla realtà, isolati dagli altri sul piano relazionale e comunicativo più profondo e autentico, “impotenti alla vita” e spesso avvolti “in una nube di sogno” (Mario Puppo e Giorgio Cavallini); anche qui c’è un genitore presente come dura eredità paterna e il farsene carico da orfani costituisce soltanto una colpa da espiare, pur nella consapevolezza che il male viene prima degli uomini e delle loro sorti personali; verrebbe da dire: quasi a prescindere da essi, dei quali tuttavia determina inesorabilmente il destino.
Ma il tema forse più avvincente di Tre croci (e che in realtà ne costituisce pure il “motore” poetico e stilistico) è quello del dolore della parola. E’ lo stesso Tozzi a indicarci la strada:
Fino ad ora le cose passavano quasi lisce; ma non si può continuare a vivere così troppo alla buona, quando si sa che tra le cose e le parole non c’è più quella vergine fede di una volta.
La crisi della parola e del linguaggio, quindi; e il dolore creativo di uno scrittore che con le parole doveva comunque fare i conti:
Le parole debbono sprizzare come le faville dalla selce perché vi si batte sopra: si deve sentire quasi fatica a foggiarle,
scrive Tozzi a proposito della scrittura a suo dire miracolosa di San Bernardino da Siena, uno degli antichi autori toscani che tanto lo appassionavano e suggestionavano fin dagli anni di apprendistato.
È perciò bello e significativo che un fine dicitore come Claudio Carini abbia scelto di cimentarsi in un audiolibro edito da Recitar Leggendo anche con il dolore della parola nel capolavoro di uno scrittore il cui giusto riconoscimento di valore, unito ad un’adeguata rivalutazione critica, è giunto in ritardo e non senza resistenze. Perché Tozzi parte dagli amati e conterranei scrittori medioevali, si forma sul naturalismo e sul decadentismo ma approda infine, per progressiva decantazione, ad uno stile espressionista non lontano dal contemporaneo Franz Kafka (1883-1924). E l’espressionismo non preconizza soltanto il primato della vita interiore dell’individuo rispetto ad una landa inabitabile in cui l’unica cosa certa è la solitudine dell’uomo e la sua incomunicabilità; l’espressionismo è anche il luogo della parola prosciugata, intesa per sottrazione, ridotta financo a puro fonema e ad oggetto sonoro presemantizzato.
A tal proposito scrive Mario Specchio:
Gli ultimi quadri di quella via crucis che è il romanzo Tre croci ci mostrano i tre fratelli nell’atto finale dell’autodistruzione, incatenati, anch’essi, allo strazio delle parole. Il grido di Giulio strozzato dal cappio che si stringe attorno alla gola, la smorfia di Enrico “con la bocca livida, da cui non esciva più nessuna parola che non facesse sentire una cattiveria quasi repugnante” e la voce di Niccolò, nel delirio, è “una voce senza più parole e senza senso; ma con dolcezze tenere, intonata”. L’unica voce capace di emettere suoni teneri e dunque umani è questa di Nicolò, che è una voce, appunto, senza più parole.
E aggiunge:
I personaggi di Tozzi parlano in preda alla smania o alla disperazione, parlano per farsi comprendere o per verificare l’impossibilità di essere compresi, parlano spesso quando nessuno può udirli, ma in ogni caso il momento in cui la voce dà corpo alle parole costituisce anche l’epicentro del sisma che, sconvolgendo contenuti ed intenzioni, sempre più li allontana dalla salvezza.
Ma c’è dell’altro. Il tema del dolore della parola afferisce alla dimensione della vita interiore che si schiude a quella esteriore. E in Tre croci la vita esteriore assume spesso le sembianze della natura, profondamente amata da Tozzi eppure imbrigliata e come domata dalla struttura urbanistica di Siena che vi viene qui
rappresentata con una tecnica tra cubista ed espressionista; ma la descrizione, di valore simbolico, si sofferma spesso sul degrado di mura e angoli di strada. La campagna fa da velario lontano, spesso velata dalla nebbia, e ha la funzione di attivare la memoria e la riflessione. (Francesca Bernardini Napoletano)
In una lettera del 1907 Tozzi scrive:
Fuggivo per i campi a guardare un granturcheto perché esso m’escludeva gli uomini. Che cosa volevo? Io pensavo di scoprire qualche pezzo del mistero che copre tutta la natura. Io avrei dato tutto me stesso per parlare ad un albero. […] Allora gli uomini mi apparivano come greggi da guidare. La mia voce li avrebbe condotti. Non era possibile che un uomo mi amasse. Io non ero più un uomo. Io partecipavo dell’aria e delle nubi. Il mio spirito era simile alla rugiada sparsa per tutti i campi. Ricordavo che gli uomini avessero un corpo? La carne mi appariva come una cosa sconcia da lasciare. Io odiavo ed amavo questa carne. Ma nessuno doveva possedere la mia. Io ero divenuto un Dio. Chi poteva amare me?
Alla luce – o all’ombra? – di tutto ciò, per comprendere con quale pietas e devozione Claudio Carini si sia confrontato con Tre croci, andiamo a considerare alcune sue funzionali scelte interpretative.
Partiamo dalla caratterizzazione vocale di ciascun personaggio: anche in questo caso Carini distingue con nettezza, innanzitutto tramite precise collocazioni di registro, i singoli personaggi, a cominciare naturalmente dai tre fratelli. Giulio è sicuramente il più difficile da rendere vocalmente: la dolente umanità della sua condizione – unitamente al presentimento della sua tragica fine ineluttabile (ma tuttavia con una sorta di superiore distacco, perlomeno nei suoi momenti migliori) – finisce per coinvolgerci sul piano emotivo, anche se la nostra comprensione non ci consente, purtroppo, né di giustificarlo né di assolverlo.
Nel cap. X Giulio va a fare una passeggiata assieme al cavaliere Nicchioli, l’uomo che aveva firmato delle cambiali per aiutare i fratelli che si erano trovati in difficoltà finanziarie con la libreria antiquaria ereditata dal padre; tuttavia Giulio è roso dal senso di colpa per aver approfittato della generosità e della buona fede del Nicchioli, avendo egli falsificato altrove la sua firma. La tensione di Giulio è tutta nella sua voce, contrappuntata da quella invece cordiale e condiscendente (almeno sulle prime) del suo interlocutore che non sa ancora di essere stato raggirato: Carini in questo senso è di una chiarezza esemplare. A ridosso, però, dopo un breve scambio di battute fra i due, è Siena e una delle sue bellissime descrizioni a rubare la scena: Carini legge questo passo con dolcezza e affabilità, ricordando tuttavia che la natura inviolata e incontaminata – quella così amata da Tozzi – qui è assente, sostituita da una natura piegata ai bisogni umani e da una città che vi si rapporta, come dicevo testé, domandola. Quello che sorprende di più, in questa come nelle altre descrizioni senesi, è la precisione geometrica della scansione cui la città viene sottoposta, con il predominare di linee che sembrano unire, comporre e collegare e invece finiscono per resecare, recidere e separare, spesso con un senso di vertigine e di capovolgimento della prospettiva acuito dal punto di vista dell’osservatore. Ecco allora che la dolcezza e l’affabilità di Carini suonano sinistramente presaghe di ciò che in effetti – immedicabile – presto accadrà.
Nel cap. XIII, infine, apice espressionista di tutto il romanzo, è significativo che Giulio decida appena svegliato di “fare la prova della morte” (“Non può essere mi manchi la forza di fare a me quello che non farei agli altri”) e lo dica a sé stesso con l’orgoglio scoperto della sua recuperata dignità, accompagnato in questo letteralmente per mano da Carini; e che dopo prorompa in un gesto liberatorio en plein air, di regressione e di ritorno alla natura, proprio mentre si trova nel centro di Siena:
A Giulio pareva di respirare con una boccata sola tutta l’aria della piazza; ed era come un ragazzo che si trova dinanzi a cose che non può capire, ma vi si attacca lo stesso. Sentiva che poteva parlare con quanta sincerità voleva; una sincerità immensa.
Non sorprende che Carini dia a questo passo un senso di crescente trepidazione che ben gli si attaglia.
Le ultime righe del capitolo – il suicidio apparentemente accidentale di Giulio nel deliquio e nelle allucinazioni – portano Carini a seguire interpretativamente questo angustiante fiume in piena fino a quando il suo sbocco nella pace mortale determina un improvviso e quasi ieratico rallentamento, tuttavia corroborato da un tiepido afflato di fraternità, di cui il ritrovato silenzio costituisce solo il tratto più evidente:
Allora, spense la luce. E, al buio, senza rendersi conto che si ammazzava, mise la testa dentro il laccio. Sentendosi stringere, avrebbe voluto gridare; ma non gli riescì.
Come scrive ancora Mario Specchio:
La lingua di Tozzi è la lingua del silenzio, ma non come trasposizione dell’ineffabile o scommessa giuocata sul Nulla […]: la lingua di Tozzi è la cifra del silenzio tradotto nella sua oggettiva equivalenza comunicativa ed il silenzio si articola in rappresentazione scultorea del gesto.
Federigo Tozzi, Tre croci
Lettura integrale interpretata da Claudio Carini
Recitar Leggendo, Perugia 2005 – www.recitarleggendo.com
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