Sarebbe davvero sorprendente se in questo paese di pochi lettori le sorti di un grande gruppo editoriale diventassero argomento di acceso dibattito pubblico, non limitato alla sola comunità dei professionisti del settore. Lo sarebbe davvero, se l’interesse per la possibile acquisizione di RCS libri da parte di Mondadori non fosse dovuto unicamente al coinvolgimento del non-più-cavalier Silvio Berlusconi.
Declinante sull’orizzonte politico, B. riesce ancora a causare la mobilitazione di Umberto Eco e di parecchi altri autori di punta di Bompiani, casa del gruppo RCS, i quali, assieme ad «alcuni amici che pubblicano presso altri editori, intellettuali e artisti», hanno sottoscritto un appello comparso sul Corriere di ieri, nel quale si denuncia il pericolo di una fusione che porterebbe al controllo di circa il 40% dell’intero mercato librario italiano.
Voi non potete immaginare la mia delusione nel leggere questa stringata letterina, buttata giù evidentemente con la mano sinistra – la sua stringatezza confermerebbe una tendenza già riscontrata in Numero zero, sorta di versione liofilizzata per lettori pigri de Il Pendolo di Foucault (che resta tra i miei romanzi preferiti). E passi per la stringatezza, ma gli argomenti?
«Un colosso del genere avrebbe enorme potere contrattuale nei confronti degli autori, dominerebbe le librerie, ucciderebbe a poco a poco le piccole case editrici»
Insomma, tutto resterebbe esattamente com’è ora…
«e (risultato marginale ma non del tutto trascurabile) renderebbe ridicolmente prevedibili quelle competizioni che si chiamano premi letterari».
Quando si dice l’onestà intellettuale. I benedetti autori contano molto sui premi e sul battage annesso, ammettono implicitamente che a fare la differenza, più che la sostanza letteraria dei loro capolavori sono le dimensioni della macchina editoriale che li promuove. Il problema non è quindi il (relativo) monopolio. Quello che non riescono a digerire è soltanto di finire a lavorare per Belluscone, o di tornarci, come il povero Vito Mancuso, spostatosi da Mondadori a Rizzoli anni fa proprio per evitarlo.
Questo potrebbe essere l’ultimo episodio di una storia che gran parte dell’intelligencja di sinistra fatica ad accettare. Dalla fine della “guerra di Segrate”, col lodo che consegna Mondadori a B., allo scandalo del povero Saviano, che scrive di camorra pubblicato da un editore in odore di mafia, passando per l’acquisizione di Einaudi, editore engagé per eccellenza, vissuta come autentica profanazione.
I nostri intellettuali faticano ad accettare che nonostante – o grazie – a B., Einaudi, prossima al tracollo negli anni Ottanta, sia ancora un editore importante e che il suo prezioso catalogo, zeppo di quelli che Belluscone considera dei comunistacci snob, da Adorno a Deleuze, sia sostanzialmente integro.
Faticano ad accettare che Saviano abbia raggiunto una visibilità enorme grazie a Mondadori, ma forse ciò che davvero non riescono a concepire è che una parte enorme del nostro patrimonio editoriale sia tenuta in piedi non solo o non tanto dai consensi dei pochi lettori forti o medi, colti o semicolti, preferibilmente progressisti, quanto dai consumi sottoculturali dei non lettori, teledipendenti e (spesso) elettori del centrodestra.
Ecco l’amarissima verità che i nostri intellettuali di sinistra non riescono a sopportare: gli Italiani che non leggono guardano le tv del non-più-cavaliere, gli inserzionisti pagano e B. si compra gli editori per i quali gli intellettuali pubblicano i loro saggi, nei quali viene spesso descritto il declino culturale del Paese, attribuito indovinate a chi. Davvero uno strano anello.
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Caro Federico,
un bell’articolo, per una bella – ed utile – provocazione.
Però non sono d’accordo.
Il cinismo della nostra “sinistra cerebrale” (e, a scanso di equivoci, aggiungo subito che sono anch’io “malato di politica, a sinistra senza dogmi”) è ben noto: ma non li accuserei, in questo caso, di non aver capito – o piuttosto di non riuscire ad accettare – che in questo momento l’industria culturale italiana è sostanzialmente puntellata dai “decerebrati” elettori del centro-destra e dai loro consumi televisivi. Ad un geniale “marpione” come Eco, poi, che già 50 anni fa ammiccava alla cultura “pop” con Apocalittici e integrati, e che in seguito ha saputo assurgere a fama imperitura (;D) con coltissimi romanzoni di appendice, anziché con i ponderosissimi saggi di semiotica, un’accusa del genere mi parrebbe proprio calzare come una scarpa stretta.
E infatti, in questo caso, facendo momentaneamente finta di non vedere il loro cinismo “medio” e la loro inveterata tendenza a tirare acqua al proprio mulino, ritengo abbastanza fondata l’invettiva pubblicata sul CorSera di ieri.
Mi pare fondata, proprio perché siamo GIÀ un paese caratterizzato da una scarsa e povera circolazione della cultura e da un controllo sostanzialmente oligopolistico dei centri di produzione dell’informazione: e dunque mi preoccuperei seriamente della nascita di un gruppo editoriale capace di controllare il 40 % del mercato (e la quasi totalità delle librerie).
Mi preoccuperei, perché lo vedrei come il primo passo verso un monopolio (se dopo l’acquisizione di RCS, Mondadori si comprasse un paio degli altri maggiori editori, arrivando al 60 o al 70 %, potremmo infatti sostanzialmente parlare di monopolio): giunti al quale, non riesco nemmeno ad immaginare cosa potrebbe ulteriormente accadere, proprio ANCHE a causa dell’essere, questo, un paese di persone che DIFFICILMENTE scenderebbero in piazza per salvare la piccola libreria indipendente dalla chiusura.
O, meglio: lo immagino benissimo. Basta pensare – mutatis mutandis – ai danni arrecati dal monopolio FIAT all’industria metalmeccanica italiana, al sistema dei trasporti, alla ricerca ingegneristica sui mezzi di trasporto di nuova generazione… e perfino all’immaginario collettivo italiano. Per tacere, poi, dei danni fatti alla politica.
Ecco: trasferiamo il tutto nell’ambito editoriale, e potremmo avere un quadro plausibile della situazione…
Comprendo l’obiezione nel merito, ma il mio pezzo vuole soprattutto puntare uno spillo sull’ipocrisia degli operatori dell’industria culturale. Le domande implicite sono: il conformismo intellettuale deriva dalla figura di B o da un sistema condiviso anche dall’altra parte? Perché, se la CIR avesse vinto la guerra di Segrate, avremmo dovuto preferire un monopolio di segno opposto?
Io semplicemente rilevo quest’ipocrisia e non mi preoccupo della questione del monopolio.
Trovo interessante il tuo paragone con la FIAT, che però a mio avviso calza sino a un certo punto. Epoche – e cicli economici – differenti, settori troppo diversi: la merce-cultura si vende meglio in un regime di libertà intellettuale, in particolare oggi che il mercato sembra tendere verso il modello della “coda lunga” – un libro per ogni lettore. Non credo che a una grande concentrazione di capitale – comunque necessaria a salvare l’azienda – in questo caso possa costituire un pericolo. Se la nostra cultura è nello stato attuale è per tante diverse ragioni che non possiamo, per pigrizia, identificare col solo Belluscone.
Perché supporre che l’opposizione a questa fusione sia motivata dalla proprietà Berlusconi?