Peter Gomez: “Berlusconi al Colle? Neanche i suoi alleati lo vogliono davvero”

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21 Dicembre 2021

Questo nuovo filone di interviste a giornalisti e direttori di giornale mi ha fatto scoprire un mondo di aneddoti e retroscena. Alcuni molto divertenti, altri che dovrebbero entrare di default nella storia del giornalismo italiano.

Peter Gomez, direttore de Ilfattoquotidiano.it, non fa eccezione e ci regala il suo spaccato del giornalismo dagli anni ’90 a oggi, con un clamoroso colpo di scena finale sul toto Quirinale.

Hai fatto la gavetta da giornalista in un giornale di provincia, l’Arena, scegliendo volutamente questo percorso, cosa ti ricordi di quegli anni?

Stavo facendo la scuola di giornalismo e ho iniziato lo stage a L’Arena, poi mi hanno assunto a Il Giornale e così non ho finito la scuola.  Quando il direttore de L’Arena, Brugnoli, mi prese per lo stage mi mise in cronaca dicendo: “se lei impara a fare la cronaca qui, la saprà fare ovunque.” Aveva ragione. Chi sa fare il cronista può scrivere di qualsiasi cosa. A Verona “L’Arena” è un’istituzione, quasi quanto il Sindaco, a quel tempo guidavo una Citroen Due Cavalli e i vigili, sapendo che ero un giornalista de L’Arena, mi permettevano di posteggiare persino sulle strisce pedonali. I giornali di provincia non sono proprio dei cani mastini del potere, però mi sono divertito. Un giorno faccio un articolo su una lottizzazione mezza abusiva in provincia e per localizzare il sito faccio il nome di una nota fabbrica di mangimi. Il pezzo esce però senza quel nome e quando chiedo spiegazioni mi rispondono che tra gli azionisti del giornale c’era il proprietario di un mangimificio concorrente. Del resto anche a Il Giornale se si suicidava qualcuno a Milano2 o c’era stata una rapina, bisognava scrivere Segrate.

Cosa è cambiato oggi nella gavetta dei giovani giornalisti?

I giovani sono molto più preparati di quanto lo eravamo noi, i ragazzi che arrivano oggi in redazione conoscono bene le lingue, sono tutti laureati, hanno un master… Ai miei tempi venivamo tutti assunti, anche se eri un cretino, dopo qualche anno da abusivo, entravi perché i giornali vendevano tantissimo e avevano sempre bisogno di giornalisti. I ragazzi di oggi in gran parte non avranno invece un posto di lavoro e, se l’avranno, svolgeranno un lavoro diverso dal nostro. Per i primi vent’anni della mia carriera sono stato sempre in giro, ho fatto il cronista a Il Giornale, a La Voce, a L’Espresso, in redazione si andava solo per scrivere il pezzo con le macchine da scrivere. I giovani invece oggi stanno tantissimo in redazione e così si perdono tutte le cose che impari stando in giro, ma non è colpa loro.

Che anni sono stati quelli a Il Giornale di Montanelli?

Sono stati anni belli, ho iniziato agli spettacoli passando tanto tempo nei locali notturni di Milano, tant’è che ho vissuto di rendita per vent’anni, avendo conosciuto tutti i titolari. Poi sono passato alla cronaca e qui è stata una grande gavetta. A 22 anni mi lasciano in cronaca per fare il cosiddetto turno di notte, dove, se succedeva qualcosa, era necessario ribattere e bisognava farlo solo se le cose erano molto gravi, visto che la ribattuta costava. Arrivati all’ultimo giro di telefonate in questura, vigili del fuoco, ospedali, ormai, intorno a mezzanotte inoltrata, a circa mezz’ora dalla chiusura, mi dicono di un incendio in Corso Vittorio Emanuele a Milano, un cinema o una palestra. Ero alla prima notte e sentivo il peso di questa responsabilità. Mi dicono di andare sul posto: è bruciata una palestra, il fumo ha invaso il cinema adiacente, tutti salvi, nulla di grave. Torno in redazione chiedo per telefono consiglio al mio vice capo che, constatata l’assenza di morti o feriti, concorda nel non dare la notizia. Il giorno dopo la notizia era su tutte le prime pagine dei giornali di Milano. È ovvio, infatti, che lo sgombero di un cinema in pieno centro sia una super notizia. Per questo errore, il mio vecchio capo cronista, Ettore Botti, non mi ha fatto più firmare un articolo per sei mesi. Cominciai a risalire quando feci uno scoop su un quadro rubato alla Pinacoteca di Brera. Ma l’articolo me lo fecero firmare solo con la sigla PG. Insomma agli inizi è stata dura, ma in realtà è servito molto. A quel tempo si stava in redazione fino a tardi, i più anziani giocavano a poker con i poligrafici, poi si usciva e si andava in Brera, Milano non era come oggi, ma era già la Milano da bere. Il sindaco era Pillitteri, il cognato di Craxi, e noi, in cronaca, ci occupavamo molto di quello che accadeva in Comune. Con me c’era Letizia Moizzi, nipote di Montanelli, e Federico Bianchessi, ci occupavamo degli scandali delle aree d’oro di Salvatore Ligresti. L’Avanti pubblicò un fondo contro di me definendomi Sherlock Gomez, il giornalista sempre troppo bene informato. Nel 1992, Bobo Craxi, incontrando Federico Bianchessi, disse in Consiglio Comunale che, dopo le elezioni, a Il Giornale sarebbero saltate molte teste e fece il mio nome e quello di Letizia. Noi preoccupatissimi andammo dal direttore Montanelli che ci disse: “noi solitamente non rispondiamo alle provocazioni che ci fanno i politici – (cosa che io ho continuato a fare, non ho mai querelato nessuno, non polemizzo, racconto i fatti e le opinioni) – siete assolutamente autorizzati a rispondergli che, dopo le elezioni, l’unica testa che probabilmente cadrà sarà la sua, sempre che qualcuno sia in grado di trovarla.”

Erano anni in cui i politici erano molto minacciosi, oppure ti blandivano. Come per esempio aveva fatto con me Angelo Rossi, Assessore Socialista  in  provincia, che conobbi quando mi occupavo di scuola. A me Angelo piaceva. Mi sembrava moderno, super dinamico. Un giorno mi chiese quanto guadagnavo, 1 milione e duecentomila lire: disse che era un scandalo che un giovane brillante come me guadagnasse così poco. Poi mi chiese dove vivessi: io stavo in periferia, a Niguarda. È uno scandalo! disse di nuovo. Mi propose allora di organizzare un convegno per parlare di scuola e mass media. Dovevo scrivere una relazione che mi avrebbe pagato 9 milioni e mi promise di cercarmi una casa nuova, attraverso un ente pubblico, un’assicurazione. Non  riuscivo a cogliere bene quanto stava accadendo. Dopo qualche giorno mi chiama chiedendomi prima di dirgli se un certo pezzo era in pagina e poi di contattare l’allora Assessore provinciale all’Economato per sapere la somma spesa per il riscaldamento nelle scuole. Lo chiamo e trovo un uomo letteralmente terrorizzato. Comincio a capire cosa stava succedendo. Di fatto provavano a comprarmi: quindi richiamo Angelo Rossi e rifiuto la sua offerta. Durante mani pulite Rossi verrà arrestato, insieme all’Assessore provinciale all’Economato, per tangenti sul riscaldamento nelle scuole.

Dopo la scuola arrivo alla cronaca giudiziaria. In quel periodo al Corriere della Sera c’era Adriano Solazzo, un cronista che aveva notizie di ogni tipo, quindi tutti cercavano di lavorare insieme e stargli attaccati per non prendere il “buco”. Io però a 25 anni mi ero stufato e volevo lavorare da solo. La tensione era altissima, stavamo fino alle 19 al Palazzo di Giustizia ed eravamo angosciati da quale “buco” Solazzo ci potesse dare. Si andava a mezzanotte a prendere i giornali in edicola pregando di non essere stati traforati. Poi scoppia la “Duomo Connection”. Lavoravo in coppia con Goffredo Buccini del Corriere della Sera. Spesso si lavorava in coppia, anche con giornalisti di testate diverse, perché con le inchieste troppo grandi da solo fai fatica, devi per forza avere un partner. La “Duomo Connection” scoppia perché trovai agli atti un’intercettazione ambientale in cui un mafioso sosteneva di aver dato duecento milioni di lire all’assessore Schemmari e di avere un contatto con Pillitteri. Era una notizia che non riuscivo a far uscire.  Non eravamo filocraxiani, anzi, ma eravamo pur sempre il giornale di Berlusconi, il suo miglior amico. Decido quindi di volantinare i documenti in sala stampa e torno in redazione dicendo ai miei colleghi che quella notizia l’avevano tutti: Repubblica, Il Corriere, Il Giorno e quindi anche noi eravamo costretti a pubblicarla. La Repubblica fa uscire il pezzo, ma non  riporta la parte riguardante Schemmari. Omette il suo nome. Ma in fondo all’articolo scrive che Pillitteri e l’Assessore all’urbanistica Schemmari avevano fatto denuncia per millantato credito. Quindi la domanda era, ma perché Schemmari ha presentato una denuncia, visto che non era citato nella parte precedente? Per mesi comunque Repubblica avrà sempre più notizie di noi. Nella Duomo Connection con Buccini ci ammazziamo di fatica. Visto che non riuscivamo a trovare molte carte ci mettiamo a intervistare chiunque abbia a che fare con l’indagine. Facciamo la posta ai testimoni per ore, a volte giorni. Ma niente. Repubblica vince quasi sempre. Poi un giorno io e Goffredo capiamo perché. Vengono depositate delle intercettazioni. In quegli anni il 90% dei documenti che uscivano, provenivano dagli avvocati. Con dei colleghi, anche di Repubblica, andiamo a prendere queste intercettazioni da un legale degli indagati, dalle quali emerge che Schemmari si sentiva tutte le mattine con il capo cronista di Repubblica, discutendo con lui anche della linea difensiva da tenere (Schemmari sarà poi archiviato). Insomma loro avevano il vantaggio di avere uno dei principali indagati che passava le informazioni. In queste intercettazioni parlavano anche di me, perché avevo fatto uscire un pezzo, finito in prima pagina, riguardo al rapporto della commissione antimafia in merito a infiltrazioni mafiose nella politica milanese.  Il capo cronista di Repubblica al telefono diceva a Schemmari di protestare con Il Giornale, perché ero un cretino. Due giorni dopo Goffredo Buccini, che per me era come un fratello, inzigato da Gotti, che non voleva che lui lavorasse in coppia con me, mi dà un “buco”. Pensa come mi sono sentito: tuo fratello ti dà un buco e in più vengo schernito dai colleghi de Il Giornale. Per fortuna, il giorno dopo, un amico mi chiama e mi dà il testo dell’archiviazione di Pillitteri, informazioni che tutti stavano cercando di ottenere in quei giorni. Un grande scoop. Decido di pubblicare il pezzo da solo, prendendomi la mia rivincita con il Corriere e con Repubblica. A quel punto mi chiamano da Repubblica per chiedermi se posso dare loro una copia del documento. Io la mando al suo capo cronista, chiusa in una busta con scritto “ricordati che non sono un cretino”. Fu organizzato un pranzo per riappacificarsi.

Che ricordo hai di Montanelli? Credi sia corretto rivalutare oggi la sua figura e il suo ruolo storico e culturale?

Gli avversari di Montanelli non hanno capito che lui era un anti comunista, era un conservatore, ma è totalmente falso che fosse un fascista. Lo era stato fino al 1938, poi era diventato talmente inviso al regime che fu mandato a fare il lettore di italiano in Estonia. Il problema erano stati i suoi reportage sulla guerra civile Spagnola. Aveva raccontato la verità, spiegando che da parte degli italiani non vi era stata nessuna impresa eroica, al contrario di quanto scriveva il resto della stampa.  Per questo fu esiliato. Poi fu condannato a morte dai tedeschi, fu fatto uscire dal carcere di San Vittore, solamente grazie al Cardinale Schuster e all’intervento della sua compagna di allora. Non è quindi corretto confondere un anticomunista, un conservatore, con un fascista. Quando crollò il muro di Berlino ci disse che il comunismo era finito, lui restava un uomo di destra, una destra che però in Italia non c’è mai stata. Aveva pochissimi rapporti con la politica, se non per lavoro, questo è stato un suo insegnamento che ho cercato di rispettare e fare mio. Per lui l’unica, vera eccezione fu quella di Spadolini, perché era stato suo Direttore al Corriere della Sera.

Ti faccio la stessa domanda che ho fatto a Sallusti. Montanelli ha fatto bene a lasciare Berlusconi quando è sceso in politica? Cosa non ha funzionato nell’esperienza editoriale di La Voce?

Montanelli non lasciò Berlusconi, ma fu di fatto “cacciato.” Formalmente furono delle dimissioni, ma di fatto Berlusconi venne in redazione (in teoria non era nemmeno più il nostro proprietario), senza chiedere permesso al Direttore, durante un assemblea, io ero in piedi vicino a Montanelli e ci disse che se avessimo usato, non il fioretto, ma la spada contro le sinistre, ci avrebbe aumentato lo stipendio. La cosa personalmente mi indignò. Emilio Fede si scatenò contro Montanelli, i suoi interventi al TG4 erano delle vere e proprie manganellate nei suoi confronti. Montanelli fu costretto a lasciare. Lui era contrario alla discesa in campo di Berlusconi, pensò, sbagliando, che la sua carriera politica durasse di meno. Come editore poteva gestirlo, ma come politico diventava non solo complicato, ma pure deontologicamente insostenibile Cosa non funzionò a La Voce? direi la follia. Ricordo che quando andai dal capo redattore Sarcina per contrattare il mio stipendio, ricevetti una proposta di un compenso tre volte superiore di quello che percepivo a Il Giornale, credo che anche a Beppe Severgnini, che andò negli Stati Uniti, diedero una cifra mostruosa. Tieni presente che La Voce ha chiuso a 70.000 copie, solo che aveva una disfunzione di costi mostruosa, una redazione con arredi costosissimi, con una prestigiosa sede in via Dante a Milano. Quando facemmo una prima pagina in cui Enrico Cuccia veniva raffigurato come Nostferatu, le banche ci chiusero i fidi. Anche pensare che i lettori di Montanelli potessero spostarsi, non tanto a sinistra, ma in un luogo in ogni caso non vicino alla destra, che vinceva, era probabilmente velleitario. È stato un giornale a mio avviso innovativo, una bellissima esperienza, purtroppo durata pochissimo. Un’esperienza di cui ho fatto tesoro, quando insieme a Marco Travaglio siamo partiti per l’avventura de Il Fatto Quotidiano, dove iniziammo in sedici, ammassati in un appartamento di 110 mq. In ogni caso Sallusti per me è stato il cronista più in gamba di tutta Milano nei primi anni 90. Era un mastino, un giornalista di una bravura straordinaria. Anche se non condivido molto di quanto scrive, gli voglio ancora bene. E dico sempre che lui è come Dart Fener di Guerre Stellari: il migliore dei guerrieri Jedi che ha ceduto al lato oscuro della forza.

Intervisteresti mai Berlusconi a La Confessione?

Certamente sì, ma non ci viene. Non viene lui, non viene Matteo Renzi, non viene Salvini, promettono, ma non mantengono, mentre sono più disponibili Calenda, Meloni, Zaia. Non capisco, non li mangio, faccio solo domande, non uso e non ho mai usato toni inquisitori nelle mie interviste.

C’è un personaggio che vorresti intervistare, ma che non ha ancora accettato?

Oltre a quelli già citati mi piacerebbe intervistare Dell’Utri, proverò a chiederglielo.

Fra le tante inchieste che hai fatto, qual è stata la più difficile e quella che ti ha dato più soddisfazione?

La più difficile è stata quella sugli Spioni Telecom, una bella inchiesta fatta con Fabrizio Gatti e il collega Vittorio Malagutti de L’Espresso. Facemmo l’inchiesta prima della magistratura. Tra gli scoop ricordo, con grande soddisfazione, quello sul rapporto di Banca d’Italia sui primi finanziamenti a Berlusconi. Poi mi piace ancora ricordare la vicenda, di quando ero giovane, del Dottor Morte: a Milano viene trovato morto un ragazzo, per overdose, senza che ci sia la siringa. La notizia viene  portata da un collaboratore e mi viene chiesto di assisterlo, vista la sua giovane età. Scopro che la vittima era iscritto ad un’Associazione per la dolce morte. Parto e vado a Firenze, da un certo Dottor Canciani, che mi riceve mentre è al telefono e lo sento dire: “Signora, l’avevo detto però che 30 pastiglie di Roipnol non erano sufficienti”. Stava parlando con un’aspirante suicida,  che non era riuscita nel suo intento. Quindi cosa faccio? Chiedo al dottore di passarmela e faccio l’intervista all’aspirante suicida, nell’ufficio del Dottor Morte. Ovviamente scoppia un delirio, li mettono sotto processo e io vengo chiamato a testimoniare. È stata solo una questione di “fortuna”, il classico trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Non so perché, ma a me è capitato spesso.

C’è invece uno scoop che avresti voluto fare tu e invece lo hai letto su un altro giornale?

L’avviso di garanzia a Berlusconi, ce l’ho ancora sul gozzo. Io in quel periodo lavorava in accordo con il Corriere della Sera anche se il mio amico Goffredo Buccini era stato spostato a Roma. Tutti sapevamo che era imminente l’avviso di garanzia. Il Corriere non aveva buoni rapporti con Di Pietro e spesso chiedeva a me di chiamarlo, per avere conferma che l’avviso di garanzia non fosse ancora arrivato. Io quella sera dovevo uscire con una ragazza: chiamo Gianluca Di Feo del Corriere e dico che stacco. Lui mi dice di stare tranquillo, che nulla sarebbe successo. In realtà loro stavano già scrivendo. La mattina dopo, esce lo scoop e alle 6 mi telefona Luca Fazzo distrutto. Non è questo il modo di fare gli scoop, soprattutto dopo avermi chiesto di telefonare a Di Pietro. Goffredo e Gianluca oggi sono tornati ad essere degli amici, perché capisco che a volte tutti noi, di fronte alla notizia perdiamo la testa. Detto questo la verità è che ci sono rimasto umanamente molto male.

Com’è cambiato il giornalismo con il web? In che modo fare il giornalista sul web ha arricchito la tua professionalità e invece quali sfide hai dovuto affrontare?

Il mezzo non conta, devi avere delle cose da dire e le puoi scrivere anche suoi muri. Il vantaggio del web è che potenzialmente hai un pubblico enorme, che con la carta stampata non si aveva nemmeno quando il Corriere Della Sera vendeva 700.000 copie. Inoltre ti obbliga ad avere un confronto in tempo reale con i lettori e quindi, quando scrivi, devi pensare che quello che hai scritto rimane per sempre e devi pensare a tutte le possibili obiezioni, in quel momento e in futuro, perché ne va della tua credibilità. Pensa solo alla reputazione delle persone, si possono davvero fare danni enormi con il web.

In tre parole il tuo rapporto con Marco Travaglio

Amicizia, franchezza, Milano-Roma. Abbiamo valori simili, dirigiamo due redazioni diverse in totale autonomia, in due città diverse e con toni differenti. In un giornale cartaceo devi avere un popolo di seguaci. Di persone che credono in te e che per questo ti comprano, sul web no, perché devi parlare a milioni di persone, non a decine di migliaia. Devi insomma dibattere, confrontarti. Essere disponibile a dialogare con tutti. Contano di più le notizie che la linea del sito. O meglio sono le notizie, alle quali dai più rilevanza, che caratterizzano la linea del sito, non le opinioni. Io ho diversi blogger che scrivono e dei quali non condivido le idee, ma non li chiudo e no li censuro, perché questa è la forza di una redazione online. Anche perché sono convinto che anche tra persone con opinioni diverse si possano trovare punti di vista in comune. Per questo penso che Mattia Feltri abbia commesso un errore quando sull’Huffington ha rinunciato a tanti blog. Da una parte oggi l’Huffington ha meno contenuti e quindi meno traffico. Dall’altra sul web bisogna provare a parlare a tutti. Anche con chi non é d’accordo con te.

Un/Una collega, che stimi e con il/la quale ti piacerebbe lavorare?

Ne ho tanti, faccio solo i primi nomi che mi vengono in mente ora, su due piedi: Tommaso Labate del Corriere della Sera, Gianluigi Nuzzi, Fiorenza Sarzanini, Sigfrido Ranucci, Riccardo Iacona e Lirio Abbate… sono davvero tanti. Il concetto è che in qualsiasi giornale, anche in quelli che non ti piacciono, ci sono sempre dei bravi giornalisti.

È vero che ti avevano offerto la direzione del Tg1?

Sì, nel 2018. Ed è stata una rinuncia che mi ha pesato: quando cominci a lavorare in  Italia sogni per forza di diventare direttore o del Corriere o del Tg1. Ma non si poteva fare: in quel momento mi avrebbero messo addosso una casacca di giornalista di parte, una casacca di giornalista gialloverde. Non importa che la cosa non sarebbe stata vera: ma nella nostra professione, secondo me, non bisogna solo essere indipendenti, ma apparire anche tali. Oltretutto per cambiare il Tg1, dove lavorano tanti bravi colleghi, è necessario, come ovunque, avere una piccola squadra che lavora con te. E questa non avrei potuto averla. E in ogni caso dopo aver scritto per anni: fuori i partiti dalla RAI, non ci si può rimangiare tutto solo perché ti hanno offerto ciò che sognavi. Certo, se invece mi fosse stato offerto un programma tutto mio, con autonomia assoluta e solo la possibilità di essere licenziato, se non fossi piaciuto all’editore o agli ascoltatori, forse ci avrei pensato. Ma in quel momento per il Tg1 davvero non c’erano le condizioni.

Cosa ne pensi della stampa che alimenta e sostiene le posizioni no-vax?

Una cosa che ho notato, parlando con alcuni colleghi, anche se con Belpietro non ho parlato, è che sono convinti di quello che stanno facendo, non è solo una questione di copie. Mi chiedo perché in quasi tutto il mondo la Destra sovranista abbia preso quel tipo di posizione sui vaccini, è qualcosa che andrebbe indagato, sia dal punto di vista politico sia da quello psicologico. A oggi quella posizione li porta a perdere le elezioni, se l’80% di quelli che votano Lega sono vaccinati, non gli interessa nulla della battaglia del green pass. Io penso che per molte settimane Salvini davvero non abbia voluto fare il vaccino, perché per qualche motivo non ci credeva.

Toto Quirinale?

Non lo so. So però che la sorpresa potrebbe essere Letizia Moratti, anche perché pare che la Meloni la possa sponsorizzare. Questo il mio ragionamento: Draghi lo vuole fare, perché, fino a quando non dice il contrario, siamo tutti autorizzati a pensare che lo voglia fare. Comincia però ad avere l’opposizione dei cosiddetti “mercati”  e dell’Economist. Loro lo vogliono  ancora Presidente del Consiglio, in modo da garantire con la sua presenza il nostro enorme debito pubblico e questo, per uno come lui, conta. Anche se Draghi sa bene che, anche in caso di un Presidente a tempo (tipo Mattarella), fra 1 anno o 2, potrebbe non essere più così popolare. L’inflazione sta ripartendo, mi sembra molto difficile che le banche centrali continuino a dare soldi così, come in questo periodo, il lavoro offre solo posti precari, quindi le condizione del prossimo anno e mezzo potrebbero improvvisamente peggiorare. Siamo di fronte a un “rimbalzone”, come lo stesso Draghi ha ammesso, dobbiamo vedere se cresciamo, oppure no.
Berlusconi è il nome che mi auguro serva solo da spauracchio. Lui ci crede, i suoi alleati in realtà lo vogliono poco.  Però ha ragione Renzi quando dice che il centrodestra ha il diritto di proporre un nome, perché partono da più voti.
Quindi, salvo che Mattarella si rimangi pubblicamente quello che ha affermato più volte, perché il centrodestra non dovrebbe candidare una donna come la Moratti?  Ha fatto la Ministra, la Presidente RAI, VicePresidente Regione, il sindaco di Milano. I suoi risultati, dal mio punto di vista, spesso non sono stati buoni. È e resta una berlusconiana, ma a differenza di Berlusconi, non le possono contestare problemi di ordine penale o morale, anche se ha una condanna per danno erariale da parte della Corte dei Conti. Parecchie centinaia di migliaia di euro, per i cosiddetti consulenti d’oro. Questo però per il centrodestra, dove spesso ci si è ritrovati a che fare con i giudici, non è un problema. E probabilmente non lo sarebbe nemmeno per un pezzo importante del centrosinistra, che questo tipo di questioni ha smesso da un pezzo di farle proprie. Immagino che le verrebbero invece avanzate più che altro obiezioni di ordine politico. Ma questo vale per qualsiasi candidato che provenga da una parte piuttosto che dall’altra. E alla fine il suo essere donna rischia di favorirla. In ogni caso prevedere oggi chi sarà davvero il Presidente o la Presidentessa è una questione da cartomanti, non da giornalisti.

TAG: giornalismo, il giornale, letizia moratti, Peter Gomez, silvio berlusconi
CAT: Editoria, Media

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