Il paradosso della comunicazione sessista

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4 Settembre 2016
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Il manifesto che ha spinto Ixos a dissociarsi dal suo rivenditore. In alto, la pubblicità del vino Premier Estates, ritirata dal mercato australiano

Il recente caso di Ixos, marchio che si è dovuto dissociare pubblicamente dal manifesto promozionale scelto da un suo rivenditore, è solo l’ultimo di una lunga serie di incidenti aventi ad oggetto la comunicazione sessista. Nel caso di specie, l’immagine utilizzata pareva evocare uno stupro e, inevitabilmente, ci sono state reazioni molto negative sui social network.

Parallelamente al riproporsi, con inquietante frequenza, di casi di violenza ai danni delle donne, è opportuno prendere in esame anche questo tipo di messaggi. Un significativo campionario di comunicazioni quantomeno controverse è stato raccolto dalla pagina Facebook @lafriendzonenonesiste a questo link, ma gli esempi sono comunque molti di più e non risparmiano nemmeno la politica.

Alle scorse amministrative bolognesi, ad esempio, il candidato di una lista civica ha affisso dei manifesti nei quali non c’era la sua faccia… bensì il rotondo sedere di una modella. “La foto è servita per attirare la tua attenzione, altrimenti non l’avresti mai letto”, c’era scritto sul cartellone, che ovviamente ha suscitato polemiche. Tra tanti casi analoghi, spicca il manifesto con lo slogan “Trivella tua sorella”, realizzato per la campagna del “Sì” al referendum dello scorso 17 aprile. Dopo qualche imbarazzata e imbarazzante spiegazione (dissero di volersi ribellare allo “stupro del mare”, così come a quello delle donne), i creativi dell’agenzia in questione furono costretti a scusarsi e ad allontanare il responsabile di quella scelta improvvida.

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Nello stesso periodo, Marco Travaglio è stato duramente criticato per un editoriale nel quale parlava della ministra Boschi “trivellata dai pm di Potenza”. Il direttore de “Il Fatto Quotidiano” non ha mai ottemperato alla richiesta di scuse per quell’espressione, affermando di essere scevro dagli intenti allusivi che alcuni hanno letto tra le righe.

Tutti questi episodi, molto diversi tra loro, hanno un tratto comune: non portano vantaggi a chi se ne rende protagonista. Travaglio si è fatto qualche nemico in più, soprattutto a sinistra (anche se non è detto che la cosa gli dia fastidio), il referendum sulle trivelle è naufragato con un’affluenza lontanissima dal quorum e a tutt’oggi non si scorgono assalti di consumatori famelici ai negozi dove si vendono scarpe, detersivi ed altri prodotti reclamizzati con manifesti di dubbio gusto. Giusto per completezza, aggiungiamo che il misconosciuto candidato al consiglio comunale di Bologna è rimasto tale: nonostante la notevole esposizione mediatica ricevuta dal suo manifesto, ha preso soltanto due voti. Uno dei quali è ragionevole supporre che fosse il suo.

Allora, perché così tante persone continuano a prendere questa discutibile strada? Per comprendere meglio il fenomeno, conviene sospendere il giudizio etico ed indagare prima le questioni di convenienza e coerenza. Quando un’espressione sessista viene usata a scopo provocatorio o per habitus culturale, la situazione è preoccupante, ma peggio ancora è quando essa è contenuta in un messaggio scientemente selezionato per finalità propagandistiche, tra varie proposte e possibilità.

A quale finalità può servire l’adozione di un registro comunicativo di questo genere? A volte si presuppone che possa fare breccia sul proprio target, il che, purtroppo, non è così raro, come dimostrano le esternazioni anche recenti di alcuni politici. Oppure, cosa più frequente, si sta adottando la celebre logica di Oscar Wilde: bene o male, purché se ne parli. Il compito di un creativo pubblicitario è vendere un prodotto, obiettivo spesso perseguito attraverso la provocazione pura. Si tratta di un vecchio trucco del mestiere. Talmente vecchio da essere ormai inadatto ai tempi, in moltissimi casi. Va ricordato che Wilde teorizzava che nulla fosse peggio dell’essere ignorato ne “Il ritratto di Dorian Gray”, la cui prima versione risale addirittura al 1890.

E’ un grave errore affrontare il mondo di oggi con gli stessi strumenti non dico di fine Ottocento, ma nemmeno del periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, quando Oliviero Toscani si è affermato come Re della pubblicità-shock, con alcune campagne ancora oggi molto popolari. Nel mercato attuale, la verticalizzazione dei target è tale da non poter più fare a meno di una brand-identity coerente con l’universo valoriale della propria clientela di riferimento.

Il nuovo paradigma vale anche per la moda, che pure ha un sistema comunicativo del tutto particolare, che si muove per metafore: spesso non si reclamizza il prodotto in se’, ma un’idea di eleganza e uno stile di vita che poi si traduce in “altri” costumi. E’ lo stesso concetto delle sfilate, nelle quali gli stilisti propongono abiti che quasi nessuno si sognerebbe di indossare nella vita reale, ma che generano valore facendo da traino a tendenze e prodotti più marcatamente commerciali.

La crescente sensibilità nei confronti dei temi legati alla parità di genere ed al rispetto della donna rende necessario adeguare il punto di vista di Wilde: se essere ignorati è tuttora nefasto (soprattutto per un brand commerciale), che se ne parli bene o male non è più la stessa cosa! Come dimostrano i cospicui investimenti delle grandi aziende sulla CSR (Corporate Social Responsibility), sulla web-reputation e sulle più classiche funzioni di Direzione della Comunicazione e Ufficio Stampa, un brand funziona laddove riesce a veicolare valori percepiti come positivi dal proprio target.

Se intendo vendere scarpe da donna, la scelta di un’immagine che ammicca alla violenza sessuale può dare riscontri immediati in termini di rassegna stampa, ma il rischio di mancare l’obiettivo finale, come capitato al candidato al Comune di Bologna, è molto alto. Insomma, potrà far gioco al professionista incaricato della campagna, felice di generare “rumore” intorno alle sue scelte, ma non all’azienda, che ovviamente ha lo scopo di aumentare il fatturato.

Il committente rischia invece un effetto-paradosso che può essere anche letale. L’attivazione dei gruppi sociali su tematiche di interesse settoriale (termine che in questa accezione non ha valenza giudicante) può esporre le aziende a campagne di boicottaggio dalle conseguenze difficili da prevedere. E’ altrettanto desueta l’idea che il sesso vende qualsiasi prodotto: è un mercato a se’, oltretutto molto florido, ma verticale come qualunque altro. Chi desidera avventurarcisi, sa benissimo dove rivolgersi, così come lo sanno gli utenti di nicchie sempre più specifiche, che possono andare dalla pesca d’altura alla meccanica di precisione: il mercato editoriale funziona solo se sa adeguarsi a queste nuove realtà.

Potrà sembrare fuori luogo fare un’analisi di carattere economico su un fenomeno che stimola giuste reazioni politiche, sociali e culturali, ma evidentemente nessuna delle interessantissime riflessioni filosofiche che si possono affrontare sul mondo della pubblicità può prescindere dalla sua genesi, che è di tipo commerciale.

L’altro aspetto degno di nota riguarda il clamore derivante da alcuni casi di pubblicità oscurate per il loro contenuto sessista. Citiamo due casi piuttosto noti: la ministra Fornero nel 2013 fece ritirare la pubblicità di uno strofinaccio, che per esaltare la sua capacità pulente pareva ammiccare alle tracce di un femminicidio (ma ce n’era anche una versione a ruoli invertiti), ed il Comune di Milano, che con Pisapia Sindaco si è riproposto di contrastare la “pubblicità discriminatoria e lesiva della dignità della donna”, proprio nella città dove i creativi rappresentano tuttora una potenza economica non indifferente.

In entrambi i casi, ci sono stati ampi dibattiti tra chi sosteneva le ragioni dei politici in questione e chi invece si opponeva a quella che veniva comunque vissuta come una forma di censura. Forse vale la pena di ricordare che si avvia a compiere 70 anni la legge sulla stampa, la quale – nonostante l’età – gode tuttora di ottima salute. Pur partendo da un presupposto moderno e libertario (“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”), tale legge sancisce in maniera chiara come siano “vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”.

Se il concetto di “buon costume” è, volutamente, vago, si entra poi nel merito degli “stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti”. Le immagini che ammiccano allo stupro od anche all’eccessiva magrezza delle modelle, con relativi rischi di anoressia di tipo emulativo, vi rientrano a pieno titolo, anche perché un altro passaggio della norma si precisa che le regole si applicano allo stesso modo a “tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione”, arrivando in seguito a citare anche “il giornale murale”, che non esiste più, al contrario della cartellonistica.

Risulta quindi evidente come siano già disponibili efficacissimi strumenti, legali ed economici, per combattere l’inquietante fenomeno del sessismo mediatico. Bisogna però conoscerli e saperli usare nel modo giusto, altrimenti ci si limita a lanciare degli strali che non producono effetti concreti.

 

TAG: comunicazione, Marketing, pari opportunità, pubblicità, sessismo
CAT: Editoria, Questioni di genere

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