Per i milanesi rappresenta un luogo, un museo, per alcuni uno spazio culturale, per altri ancora l’istituzione meneghina per parlare di architettura e design, in origine era il Palazzo dell’Arte, voluto dal Senatore Bernocchi e realizzato da Giovanni Muzio. Oggi è una fondazione ma dal 1933 fino al 1996 fu la sede dell’Esposizione internazionale delle arti decorative e industriali moderne e dell’architettura moderna, o più semplicemente La Triennale, nome dovuto appunto alla cadenza temporanea dell’evento. La mia generazione, quella dei mitici anni ’80, è cresciuta sotto l’aurea della Biennale di Venezia, ma ha studiato immaginato, e forse sognato, gli anni d’oro di Milano e dell’Esposizione Internazionale – la Triennale – in cui architetti intellettuali e artisti del calibro di Gio Ponti, Fontana, Bottoni, Zanuso, BBPR, De Chirico, Aldo Rossi, Gregotti, Sottsass, Nanda Vigo, Gae Aulenti, Ugo La Pietra e molti altri, si sono alternati contribuendo al dibattito culturale sull’architettura, l’urbanistica, il design e anche a riflessioni sulla società e il mondo dell’industria.
La XIV edizione della Triennale è stata scenario della contestazione del ’68, momento storico fondamentale per molti studenti e futuri architetti che vissero quegli anni. Stefano Boeri sceglie come prima copertina della sua Domus proprio una foto che ritrae Giancarlo De Carlo, tra i curatori di quella edizione, mentre tenta di di calmare gli studenti che occupavano il piazzale antistante il museo. Le contestazioni proseguirono anche negli anni successivi e nel ’73 De Lucchi, vestito da Napoleone ed ancora sconosciuto ai tempi, guadagna la sua prima copertina su Domus. Questa é tra le immagini piú vivide che io ricordo della Triennale, perché in qualche modo nelle varie edizioni ha sempre rappresentato, attraverso I suoi interpreti, un momento significativo del dibattito architettonico ma anche sociale. Dopo vent’anni dall’ultima Esposizione Internazionale, Milano, sull’onda di Expo, vorrebbe tornare ad essere centrale anche in ambito architettonico, riflettendo su temi legati alla città tradizionale e al suo dissolvimento, ai mutamenti della società e al ruolo del designer.
Se la biennale di Venezia quest’anno sarà curata da Alejandro Aravena, fresco di Pritzker, la Triennale di Milano sarà invece principalmente diretta e coordinata dal suo stesso comitato scientifico. Tra questi Andrea Branzi che nel ’66 fondava Archizoom; Cino Zucchi ormai uscito dalla schiera dei giovani architetti, ma mai dal giro della Triennale; Pierluigi Nicolin laureato proprio durante gli anni della contestazione; Silvana Annichiarico già direttrice di Triennale Design Museum e Stefano Micelli. Tutto chiaro, limpido. Oppure no. Un comitato scientifico è un organo che dovrebbe avere come compito quello di dettare le linee guida, i temi, e alimentare il dibattito culturale ed infine invitare le persone più adatte ad integrare e approfondire le tematiche accuratamente scelte dal gruppo. In questo caso il comitato scientifico, appositamente composto per la XXI Triennale, ha scelto i suoi stessi membri per curare molte delle mostre che sono in programma. Probabilmente è solo un errore banale di chi ha stilato la cartella stampa o di chi ha pensato alla strategia generale, chiamando comitato scientifico i curatori e viceversa.
Di Battista nel suo editoriale sul numero 999 di Domus dal titolo Il futuro è adesso, trova nelle nuove generazioni gli attori «che possono farsi protagoniste della richiesta di un cambiamento; loro e solo loro sono in grado di operare ed esercitare quella spinta necessaria a provocare un rinnovamento», ancora «solo la loro forza, il loro desiderio e la loro speranza di futuro possono innescare quei processi capaci di affermare un nuovo corso della vita. Guai, perciò, se questo non succedesse, se questa voglia di cambiamento venisse lasciata in mano ai sistemi vigenti, ai poteri consolidati, allo stato di fatto: sarebbe una catastrofe, e già oggi abbiamo delle avvisaglie di quello che potrebbe accadere». Sembra una voce fuori dal coro, ma l’illusione dura poco, la soluzione che propone infatti è un binomio già visto, già bruciato, quello di Maestro+Giovane; una collaborazione lontana da quella classica in cui il maestro di bottega passava al giovane tutti i segreti e saperi perché vedeva in lui un degno successore; in questo caso il Giovane ha più la funzione di bastone della vecchiaia. Il Maestro – sia pur, riconosciuto indiscutibilmente come tale per merito – non coltiva il giovane, ma sembra necessitare di lui per legittimare se stesso, per poter essere ancora della partita, per poter ancora essere presente al tavolo del cambiamento. Ma allora quale cambiamento può avvenire se chi dovrebbe promuoverlo e viverlo è “consigliato e protetto” dallo stesso sistema che si cerca di modificare?
Vent’anni dall’ultima triennale ed è cambiato tutto: è cambiato un secolo, internet è diventato strumento di informazione e disinformazione globale, l’avvento dei cellulari, degli smartphone, di apple, le torri gemelle, diverse guerre, l’euro è la moneta unica di 28 paesi, berlusconi non è più in parlamento, il mondo del lavoro è cambiato radicalmente, nascono le prime scuole di design, l’industria delocalizza la produzione ad est ed ora torna di moda l’artigianato locale (abbiamo fatto il giro), i designer auto-producono oggetti perché fuori dal sistema tradizionale industriale e commerciale, si stampano pistole potenzialmente letali scaricando un tutorial da internet, i social media prendono il sopravvento, Facebook, Twitter e Instagram sono i nuovi strumenti a cui politici sportivi e gente comune affida pensieri opinioni testimonianze e momenti di vita quotidiana, la carta stampata entra profondamente in crisi, ci si incontra su Tinder o Grindr e non più al bar.
Tutto si è modificato evoluto crollato spostato cambiato, tranne le persone che ne parlano e i modi in cui vengono scelte le persone. Innegabile che vi siano maestri, «persone che con la loro opera e la loro vita sono diventate tali, di chi è stato riconosciuto» ed abbiano uno spessore culturale ed intellettuale elevato: ma viene da chiedersi se nel panorama milanese, e nazionale, non sia stato possibile trovare nuove leve da far entrare in campo.
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