Geopolitica

La Presidente Meloni dice no alle truppe: perché l’Italia aiuta così davvero Zelensky

5 Settembre 2025

Il contesto geopolitico internazionale, con la guerra in Ucraina che continua a ridefinire equilibri e alleanze, mette in luce le diverse posture adottate dai governi europei. L’Italia di Giorgia Meloni si distingue per una strategia che unisce sostegno politico a Kiev a una ferma indisponibilità all’invio di truppe, scelta che appare tanto più rilevante se confrontata con le ambiguità della Germania e le manovre espansionistiche della Polonia e della Romania. Questo atteggiamento, a differenza di quanto avvenuto nel Nord Africa, sembra restituire all’Italia una dimensione autonoma e intelligente, che potrebbe rafforzarne il peso politico a livello continentale.

Dal 1962, anno dell’indipendenza algerina, i rapporti tra Roma e Algeri sono stati segnati da una costante subalternità italiana. L’Algeria, liberatasi dalla Francia anche grazie a un complesso intreccio di relazioni economiche e politiche che hanno indebolito l’ex potenza coloniale, ha sempre gestito con fermezza i suoi rapporti con l’Italia. Che si trattasse di gas, di investimenti energetici o di equilibri geopolitici nel Mediterraneo, Roma ha mantenuto una posizione spesso passiva, adattandosi più che guidando. In questo scenario, l’Italia ha accettato di giocare un ruolo subordinato, raramente riuscendo a imporre una propria visione autonoma.

Diversa appare invece la postura del governo Meloni sull’Ucraina. Pur sostenendo Kiev politicamente e militarmente attraverso la fornitura di armi, la premier ha ribadito con chiarezza l’indisponibilità a inviare soldati italiani, né ora né a guerra finita. Questa scelta, condivisa da Varsavia, rivela una consapevolezza storica: la presenza di truppe italiane su suolo ucraino avrebbe un effetto controproducente, alimentando i sentimenti nazionalisti più radicali, gli stessi che Zelensky cerca, con difficoltà, di contenere all’interno del suo governo.

La leadership italiana sembra aver colto una verità spesso ignorata da altri partner europei: il presidente ucraino non è il simbolo di un nazionalismo esasperato, bensì, paradossalmente, il suo ostaggio. Zelensky, nipote e figlio di una famiglia che ha subito sulla propria pelle la brutalità dell’occupazione nazista, rappresenta un contrappeso alla deriva ideologica di alcuni gruppi interni che si rifanno al culto di Stepan Bandera e a frange paramilitari dal chiaro orientamento neo-nazista. È comprensibile, allora, che la scelta italiana di astenersi dal dispiegamento di truppe venga letta non come un segno di debolezza, ma come un gesto politico di sostegno alla figura di Zelensky, lasciandogli lo spazio per isolare gradualmente gli elementi più radicali.

Alcuni eventi interni all’Ucraina – come la misteriosa eliminazione di figure politiche radicali – lasciano intravedere l’ipotesi di una “purga silenziosa” condotta dall’amministrazione di Kiev per liberarsi degli elementi più estremisti. È una dinamica che ricorda, per certi versi, processi storici drammatici come la “notte dei lunghi coltelli” in Germania, ma che in questo contesto assumerebbe il senso di una transizione necessaria: il passaggio da un’Ucraina ostaggio delle sue frange radicali a un’Ucraina più istituzionale, europeista e democratica.
In questa prospettiva, l’assenza di militari italiani o polacchi può essere letta come un contributo indiretto a questo processo, evitando di rafforzare proprio le fazioni che si vorrebbero indebolire.

Se l’Italia si muove con prudenza, la Polonia persegue una strategia ben più ambiziosa. Varsavia, che già nel 1919 aveva conquistato ampie porzioni dell’attuale Ucraina occidentale, non nasconde oggi il proprio interesse a consolidare una forma di “annessione economica” della Galizia. L’ingresso massiccio di capitali polacchi, la circolazione di lavoratori ucraini e la dipendenza commerciale creano un rapporto di fatto asimmetrico, che consente a Varsavia di ampliare la sua sfera di influenza senza bisogno di ricorrere alla forza militare.
Simile il discorso per la Romania, che guarda con crescente attenzione alla Moldova. L’eventuale ingresso di quest’ultima nell’Unione Europea equivarrebbe, in termini pratici, a una riunificazione con Bucarest, dato che gran parte della popolazione moldava possiede già cittadinanza romena. Si tratterebbe, anche qui, di un’“annessione soft” che ripropone la logica della Bessarabia, questa volta senza guerre né revisioni di confini.

Diverso e più preoccupante l’atteggiamento della Germania. La CDU di Friedrich Merz, ormai sempre più simile all’AfD nelle posizioni di politica estera, mostra aperture all’ipotesi franco-britannica di inviare truppe in Ucraina. Al di là delle formule diplomatiche, il progetto tedesco appare chiaro: rilanciare l’espansionismo ad Est, in linea con un riarmo senza precedenti nel dopoguerra. La mancanza del tradizionale contrappeso francese, storicamente garante degli equilibri interni all’Unione Europea, rischia di rendere incontrollabile questa nuova assertività tedesca, con conseguenze destabilizzanti per l’intero continente.

In questo scenario complesso, la prudenza italiana si rivela una forza. Rifiutarsi di inviare soldati non significa disimpegno, bensì consapevolezza storica e lungimiranza politica. Roma sembra aver compreso che la vera sfida in Ucraina non è solo la resistenza a Mosca, ma anche la capacità di aiutare Zelensky a emanciparsi dai condizionamenti interni, permettendo al Paese di avviarsi verso una democrazia più solida e inclusiva.
Mentre Polonia e Romania perseguono le proprie agende di espansione economica e la Germania si prepara a una stagione di riarmo, l’Italia ha scelto la via della saggezza: sostenere senza invadere, accompagnare senza occupare. Una strategia che, se mantenuta, potrebbe restituirle quel ruolo di mediatore e stabilizzatore che da troppo tempo sembrava smarrito.

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