Geopolitica
Il XXI secolo non sarà pacifico ma la pace non è un’utopia
Vorrei ringraziare Enrico Pellegrini per l’articolo “La guerra come ritorno del reale: perché il XXI secolo non sarà pacifico” che, partendo dalle speranze vissute con il crollo del muro di Berlino nel 1989 ci conduce, attraverso la stagione del predominio USA, dopo il crollo dell’URSS nel 1991, al “brusco risveglio” che, con il conflitto in Ucraina e la tragedia di Gaza, ci costringe a dover considerare che la realtà non è quella, desiderata, di un mondo senza conflitti, ma sono proprio i conflitti, generati dalla prevaricazione e dalla forza, fino a sfociare nelle manifestazioni più cruente delle guerre, la cifra del reale con il quale dover fare i conti.
L’articolo, come detto, è da apprezzare per la sua analisi e per le sue riflessioni.
Queste mie righe vogliono essere una replica non all’analisi ma alle conclusioni e alle proposte.
Se la guerra è la dura realtà che dobbiamo riconoscere, senza auspicarla, il Pellegrini invita l’Italia a provvedere, aumentando in maniera importante gli investimenti e le spese militari.
Vorrei citarvi due testi che ho appena pubblicato: “Giubileo centrifugo.
Pace, sviluppo, bene comune, casa, terra, lavoro: dalla Dottrina sociale della Chiesa gli spunti per un Giubileo aperto al mondo” e:
“La pace non è un’utopia.
Dopo la pandemia, la cronaca di tre anni di appelli dagli operatori di pace”[1]
Inizio con fare una considerazione: la guerra come ritorno al reale, a cui ci porta il “risveglio” dalla nostra “illusione di un mondo senza guerre” non corrisponde, di fatto, a un effettivo “ritorno”. Purtroppo, di fatto, le guerre esistono da che si racconta la storia dell’uomo, e anche negli ultimi 80 anni, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale con le tragedie di Hiroshima e Nagasaki, le guerre non hanno cessato di infiammare le nazioni. Forse ci siamo illusi, almeno come cittadini abitanti il continente europeo, che gli orrori vissuti da due conflitti mondiali potessero non più ripetersi, visto che dal 1945 il primo tragico conflitto continentale si è realizzato con le guerre nei Balcani tra le repubblica nate dalla ex Iugoslavia negli anni ’90.
Ricordo quasi in maniera simbolica le date del 1962, con la crisi di Cuba sventata da cui è scaturito il testamento di Giovanni XXIII, la Pacem in terris; il 1992, con la spedizione dei “Beati i Costruttori di Pace” che portò 500 persone, don Tonino Bello, don Albino Bizzotto e Mons. Bettazzi, a Sarajevo, per frapporsi sul fronte bosniaco tra serbi e croati, testimoniando una pace possibile; e del 2022, con un conflitto iniziato in Ucraina, ma contestato da centinaia di migliaia di cittadini europei scesi in questi tre anni nelle piazze delle nostre capitali a manifestare l’assurdità di ogni guerra e le ragioni della pace.
Le guerre, purtroppo, non hanno mai abbandonato l’umanità, come ricordava Papa Francesco che ci parlava di “Terza guerra mondiale a pezzi” e, al contempo, di “globalizzazione dell’indifferenza”.
ACLED monitora in maniera puntuale questi fenomeni, ricordandoci che nel mondo sono in corso 56 conflitti, il numero più alto dalla Seconda Guerra Mondiale.
Qual’è stato lo “sviluppo dei popoli”, che Paolo VI auspicava con la Polulorum progressio 58 anni fa? Purtroppo, statisticamente, in questi decenni è aumentata in maniera esponenziale la forbice tra poche migliaia di arcimiliardari (che hanno tanti soldi da non sapere cosa farne, al punto di costruirsi astronavi per fare gite in orbita nello spazio terrestre) e circa 3 miliardi di persone che muoiono di fame, che mancano di acqua potabile, o che, come ricordava don Tonino Bello 30 fa nel programma “Samarcanda”, devono decidere se “morire di fame o morire sotto le bombe” (quello che si consuma sotto i nostri occhi a Gaza, oggi).
Quale può essere la soluzione a questi enormi problemi, che l’Agenda 2030 dell’ONU vorrebbe affrontare?
Nei 17 Goals, se notate, manca la voce: “spesa per gli armamenti”.
Auspicare che la soluzione, per affrontare la realtà di questo mondo, sia quella di scalare le posizioni dei paesi acquirenti di spese militari, come la Von der Leyen chiede all’Europa, perchè la libertà va preservata con le armi, rischia di essere una tragica scelta.
La cosiddetta “deterrenza” è oggi, in realtà, una “parola d’ordine” giustificatrice delle spese belliche.
Le spese, naturalmente, si pagano.
Forse in questi tre anni ne abbiamo avuto un chiaro esempio.
Come diceva Pio XI: “Con la guerra può essere tutto perduto”.
Noi europei abbiamo appena sperimentato, in maniera indiretta, i costi di una guerra che è entrata a casa nostra solo con i mezzi di informazione.
Costi per i sistemi d’arma, ripercussioni sulle fonti energetiche, aumento esponenziale dei prezzi delle utenze, di ogni genere di bene, dei generi di prima necessità. A casa nostra questi costi sono lievitati, le famiglie si sono impoverite, le persone in povertà sono aumentate, arrivando a scegliere di risparmiare sulle medicine, piuttosto che su utenze e generi di prima necessità. Dopo i primi mesi di conflitto in Ucraina, un’amico prete in servizio presso una missione nel Benin mi ha confidato: “Alessandro, qui la gente è povera, e i prezzi della benzina da mettere nei ciclomotori e del frumento per fare il pane sono schizzati alle stelle!” Questa guerra non la stanno pagando solo le vittime ucraine, le stiamo pagando noi, le stanno pagando in Africa. Intanto, c’è chi guadagna. Non solo chi vende armi e sorride perché in Ucraina si vendono anche i sistemi d’arma con l’uranio impoverito, che come conseguenza rendono radioattivi e contaminati i suoli soggetti agli scontri. Chi ha fatto utili spaventosi in questi tre anni è chi gestisce le forniture energetiche: se il prezzo del gas lo fa Amsterdam…
Dobbiamo armarci, per entrare in sicurezza, per difendere la nostra libertà, per scoraggiare chi voglia nuocerci. Siamo sicuri che l’aumento esponenziale della corsa agli armamenti sia il mezzo più ragionevole per costruire la pace? Siamo certi che tutti i conflitti non siano causati dalla diffusione esponenziale delle armi? Come mai le cronache oggi ci propongono adolescenti italiani che girano armati e che giungono ad uccidere coetanei o adulti per futili motivi? Ma come meravigliarsi o scandalizzarsi di questo? Quando per tre anni, come adulti, abbiamo proposto ai nostri giovani un conflitto assurdo (come tutti i conflitti) come quello ucraino che forse si sarebbe potuto evitare ma che una certa narrazione diffusa ci ha imposto che fosse inevitabile e potrebbe continuare a proporci come necessario portare avanti? Come meravigliarsi quando a Gaza donne e bambini muoiono di fame o in fila per procurarsi il pane e chi li sopprime fa affari con i nostri democratici governi? La corsa agli armamenti è un tragico regalo a chi alimenta le guerre, proprio per vendere le armi. Chiedetelo alle martoriate e sfruttate nazioni africane. I costi, poi, di aerei da guerra, missili e altri sistemi d’arma, costringono i governi interessati a tagliare in maniera massiccia sulle altre voci del bilancio pubblico: sanità, istruzione, welfare-state su tutti.
Dopo la tragedia del Secondo Conflitto Mondiale, la Costituzione della Società delle Nazioni Unite voleva essere un impegno per un mondo che non vedesse più un simile orrore.
In questi ultimi anni, tale istituzione risulta impotente e inascoltata, come, al tempo stesso, inascoltati sono gli appelli, prima di Francesco, ora di Leone XIV. Urge una riflessione, un impegno e un’azione perché tali voci e tali realtà siano promosse, ascoltate, potenziate.
Il XXI secolo non sarà pacifico, come non lo è stato nessuno dei secoli che lo hanno preceduto.
La pace però non è un’utopia, ma una meta da raggiungere con le logiche coerenti di chi si spende per costruirla.
L’affermazione “se vuoi la pace, prepara la guerra” deve essere smentita da quella: “se vuoi la pace, prepara la pace!”
[1] amazon.com/author/alessandromanfridi
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