Medio Oriente
Da Hiroshima a Gaza: come i vincitori fanno la pace
10 Ottobre 2025
Due mesi fa è ricorso l’ottantesimo anniversario delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. È stato commemorato come la ricorrenza di quello che oggi sarebbe incontrovertibilmente giudicato un crimine di guerra, anche se allora il diritto internazionale non era ancora scritto come lo leggiamo oggi – e così neppure la nostra cultura dei diritti umani. La Storia insegna che quel crimine di guerra fu anche l’ultimo atto della Seconda Guerra Mondiale, e quindi l’atto zero della pace che ne è seguita. La stessa azione di guerra è stata insieme un atto abominevole e l’alba del più lungo periodo di pace della storia umana.
Il parallelismo con Gaza, pur nelle enormi differenze di contesto storico e politico, si impone per un tratto comune: la sproporzione della forza usata contro i civili. Due anni di guerra e di sterminio perpetrato dall’esercito israeliano sulla popolazione della Palestina – più di sessantamila morti di cui una gran parte bambini – non sono concettualmente diversi dalle bombe atomiche sganciate sulle città del Giappone dall’aviazione degli Stati Uniti d’America. È diverso tutto il resto, è diverso il fatto che allora l’esercito alleato stava dalla parte giusta della Storia, quella che combatteva il nazifascismo responsabile, tra i tanti orrori, del genocidio degli ebrei nella Shoah; ma non è diverso il singolo atto di potenza sproporzionato e criminale contro i civili che ha indotto gli sconfitti ad alzare bandiera bianca. La pace come conseguenza della resa per raggiunta e manifesta inferiorità della parte nemica.
Questo è oggi, mutatis mutandis, il piano di pace tra Israele e Hamas costruito e annunciato dal presidente americano Trump. Una pace – sempre che questa regga nel tempo – di cui gioire tutti, come gioiscono i gazawi che vedono vicina come non mai la fine delle loro atroci sofferenze. Ma di fatto una pace nata perché da una parte Israele ha minacciato, spalleggiata dagli Stati Uniti, di radere definitivamente al suolo quel poco che resta della Striscia, se le condizioni imposte non fossero state accettate a partire dalla liberazione degli ostaggi; dall’altra Hamas (i suoi capi terroristi) ha preso atto di avere perso su tutta la linea militare, e di non avere materialmente più nulla da difendere, se non la propria pelle. Se a questo si aggiunge la prospettiva di una ricostruzione di Gaza sotto quel che sembra un protettorato occidentale, si capisce ancora meglio come Israele abbia deciso fosse giunto il momento di passare all’incasso, garantendosi uno “stake” economico pesante nella Palestina che sarà, o potrebbe essere. La strategia non fa una piega, dal loro punto di vista.
Sarà vera pace, cioè una pace giusta e durevole? Giusta, no di certo; durevole, si spera. Per il momento, è vera gloria per Donald Trump, acclamato vincitore para-diplomatico di questa guerra. Ma almeno chiamiamo le cose col loro nome. Cioè vittoria di Israele su Hamas, così come gli Stati Uniti (e gli Alleati) hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale sul Giappone (e sul Terzo Reich). Il presidente che allora schiacciò il bottone nucleare, Harry Truman, ci diede la pace, ma non vinse mai il Nobel per la pace.
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