Cecilia Sala Enrico Cerrini Monk

Medio Oriente

I figli dell’odio, il medioriente visto da Cecilia Sala

Nel saggio “I figli dell’odio” Cecilia Sala condensa numerose informazioni che aiutano a comprendere il conflitto mediorientale, deflagrato il 7 ottobre di due anni fa, con il brutale attacco di Hamas ai civili israeliani, ma che in realtà prosegue dal 1948.

11 Ottobre 2025

Recensione a I figli dell’odio, di Cecilia Sala, Strade Blu Mondadori, Milano, 2025, pp. 156, euro 18,50 edizione cartacea.

 

Seguo la giovane giornalista Cecilia Sala da quando ha esordito con il podcast “Polvere” sul caso Marta Russo, realizzato insieme a Chiara Lalli. L’anno dopo, iniziai ad ascoltare il suo “Stories”, prodotto da Chora Media, azienda di podcast capitanata da Mario Calabresi.

 

I Figli dell’Odio

In Stories, Sala racconta una pillola di politica estera al giorno, usando un’empatia rara che coinvolge l’ascoltatore, a cui sembra di avere un dialogo diretto con l’autrice. Così, quando mi ha autografato il suo ultimo saggio “I figli dell’odio”, ho scherzato dicendogli che mi sembra ormai di conoscerla da tanto tempo. Nella dedica, mi ha augurato un “buon viaggio” che fa sempre comodo.

Ho assistito alla presentazione del libro al Monk di Roma, dove ero stato in precedenza per la festa AVS. La giornalista ha discusso con lo scrittore Paolo Giordano, specificando che il libro è diviso in tre parti, la prima su Israele, la seconda sulla Cisgiordania, la terza sull’Iran. Giordano ha definito il saggio breve ma denso, ed è vero. L’autrice condensa numerose informazioni che aiutano a comprendere il conflitto mediorientale, deflagrato il 7 ottobre di due anni fa, con il brutale attacco di Hamas ai civili israeliani, ma che in realtà prosegue dal 1948.

Il conflitto è mutato negli anni, perché la società israeliana è cambiata profondamente. Sala spiega questa trasformazione, grazie al suo strumento preferito, ovvero le interviste. Parla con le persone  e comprende i loro umori in modo da ottenere una visione d’insieme della crisi.

 

Israele

Incontra inizialmente il giornalista premio Pulitzer Ronen Bergman, che spiega come il paese si sia radicalizzato. Affronta i momenti chiave che hanno contribuito all’ascesa di personaggi messianici, a cui non interessa la convivenza pacifica, ma l’espulsione degli arabi dai confini della grande Israele biblica.

In seguito, si reca a Ramla e Lod, due città israeliane dalla forte presenza araba. Qui, grazie allo svolgimento di costanti riunioni di quartiere, è possibile la convivenza pacifica tra ebrei e musulmani, anche dopo il massacro del 7 ottobre e la guerra di Gaza. Questa speranza si infrange contro la straziante testimonianza di Gershon Baskin, uno dei principali attivisti israeliani. Baskin ha negoziato il rilascio del soldato Gilad Shalit, rapito da Hamas nel 2006 e liberato nel 2011.

Prima del 7 ottobre, Baskin era in contatto con il negoziatore di Hamas Ghazi Hamad e i due discutevano una possibile pace tra Israele e il governo di Gaza. Poi, venne il 7 ottobre e Hamad sostenne la bontà di quell’azione. Baskin fu costretto a tagliare i rapporti.

 

Cisgiordania

Sala si reca in Palestina, ovviamente in Cisgiordania, perché a Gaza è interdetto l’ingresso ai giornalisti. Jenin è la città indomita, dove tanti giovani impugnano le armi contro l’occupazione e per questo è soggetta a continui raid dell’esercito israeliano. Il primo incontro mostra la faglia intergenerazionale che dilania la Cisgiordania.

La giornalista parla con Firas Abu al-Wafa, signore sulla sessantina, sostenitore della via diplomatica per la creazione dello stato palestinese. Così, ha provato a instillare queste idee nel figlio Samih, che ha invece abbracciato la lotta armata ed è diventato un martire.

I giovani palestinesi sembrano preferire la lotta armata, mentre i più anziani continuano a credere nella diplomazia. Imad Abu Awad, giornalista di Al Jazeera, detenuto per 9 mesi nelle carceri israeliane, critica entrambe le posizioni. La sua unica speranza è lo scoppio di una guerra civile all’interno dello stato ebraico, tra chi vuole mantenere un paese laico, rispettoso dei diritti, e chi preferisce trasformarlo in una teocrazia messianica.

Il saggio si concentra sulla struttura di potere dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), inadeguata e priva di consenso. L’ANP è guidata da un leader novantenne, Abu Mazen, che non convoca elezioni da venti anni. Esercita un flebile potere su alcune aree specifiche e spesso funge da poliziotto buono rispetto ai raid israeliani, fino ad assassinare gli oppositori interni, come Nizar Banat.

L’ANP opera ai minimi termini, sotto l’occupazione delle forze armate israeliane. Lo stato ebraico controlla completamente la sua economia, determinando cosa la Palestina può importare e cosa può esportare. Inoltre, nel distretto industriale di Tulkarem, chiamato “germogli di pace”, le fabbriche israeliane producono materiale chimico che riversa il suo inquinamento nella Palestina. Il distretto diventa quindi un quartiere dormitorio per palestinesi che lavorano in queste industrie, sottopagati e con gravi problemi sanitari.

 

L’Asse della resistenza

La terza parte si concentra sull’Iran e soprattutto sull’asse della resistenza, che non esiste più. Solo nel 2019, l’asse sembrava al massimo dello splendore, quando Iran e alleati apparivano indistruttibili. La milizia Houthi teneva testa in Yemen all’Arabia Saudita, Hamas governava a Gaza, Bashar Al-Assad era ben saldo in Siria e il partito-milizia libanese Hezbollah non aveva mai perso una guerra contro Israele. L’inventore dell’asse della resistenza, Qassem Soleimani vantava una serie di successi militari incredibili, malgrado le forze disponibili non fossero all’altezza dei nemici.

La morte di Soleimani su ordine di Donald Trump ha iniziato a sfaldare l’asse della resistenza, già prima del 7 ottobre 2023. Poi, l’azione di Israele ha annientato il partner minore, ovvero Hamas. L’anno scorso, lo stato ebraico ha decapitato Hezbollah, che rappresentava l’alleato più forte e fedele degli Ayatollah iraniani. Hezbollah poteva bombardare Israele dal confine, con i missili che l’Iran forniva tramite la Siria. Ma, a dicembre 2024, anche l’alleato siriano è crollato.

Nello stesso mese, Cecilia Sala si reca in un Iran isolato e indebolito. Parla con i ragazzi e intervista Hossein Kanaani, tra i fondatori dei Pasdaran e mentore di Soleimani. E poi viene arrestata per un gioco di ricatti più grande di lei. Racconta allora alcune pillole della sua prigionia, dove lascia il tono distaccato del resto del romanzo per un approccio più emotivo. Racconta le difficoltà dell’isolamento e le pressioni che i suoi aguzzini esercitavano sulla sua mente, tanto da pensare di perdere la razionalità. Fortunatamente, la vicenda è finita bene.

 

Conclusioni

L’autrice ci lascia con l’immagine di un gatto persiano che l’accompagnerà per un pezzo della sua vita. A noi resta un saggio scritto molto bene, che aiuta a comprendere una situazione che appare ogni giorno più imprevedibile. Dove troppi fattori sembrano influenzare le decisioni di politici che spesso mostrano un lato cinico e brutale. Ma, forse, più che i politici è sempre bene osservare l’umore e i sentimenti dei popoli fiaccati da un conflitto interminabile. E questa è la forza del libro e del giornalismo di Cecilia Sala.

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