La copertina de Il Foglio, quotidiano fondato da Giuliano Ferrara e diretto da Claudio Cerasa, con la bandiera di Israele, in occasione della strage del 7 ottobre

Medio Oriente

L’editoriale di Giuliano Ferrara su Gaza e Israele non è solo un articolo di giornale

27 Luglio 2025

L’editoriale di Giuliano Ferrara su Il Foglio del  26 Luglio è un’occasione per riflettere su giornalismo e identità politiche di fronte alla storia di Israele e Palestina e alla tragedia della distruzione di Gaza.

Il conflitto Israelo-Palestinese è sempre stato uno dei campi di esercizio preferiti per il provincialismo intellettuale e politico italiano. Finita la Prima Repubblica, nella quale i grandi partiti rispondevano con diverse e articolate sensibilità interne a scenari geopolitici e ideologici più grandi di una lingua di terra piantata in mezzo al Mar Mediterraneo, la tragedia della storia si è spesso trasformata in operetta. Non quella dei palestinesi, che anzi la loro condizione di minorità e sottomissione l’hanno vista diventare davvero tragedia, e nemmeno quella di Israele, scivolato progressivamente da luogo dell’ideale di indipendenza e della sicurezza del popolo ebraico sopravvissuto alla Shoah a piccolo regno retto lungo l’asse di vari fanatismi, religiosi e suprematisti. La faccio breve, avendola fatta lunga molte altre volte.

L’operetta della nostra contemporaneità narrativa e politica sulle vicende mediorientali l’abbiamo vista pienamente all’opera, ovviamente, dopo l’11 Settembre. Finito il Novecento, di fatto tramontata a tempo indeterminata la speranza di veder succedere lo slogan dei “due popoli e due stati”, è iniziata una fase nuova della storia, che però accettava il paradigma antico del conflitto di civiltà, dello scontro senza crepe tra noi e loro, tra Occidente e resto del mondo, tra democrazia e Islam. Di lì in avanti, sostanzialmente mai revocati, i racconti e le prese di posizione su quel conflitto – quelle sulla prospettiva storica e quelle sulla contingenza di Intifade, repressioni, attacchi terroristici – si sono aggregati attorno a due poli narrativi e dialettici netti: “Israele si difende da chi lo odia ingiustamente e vorrebbe distruggerlo attraverso guerre e terrorismo”; “le vere e uniche vittime della vicenda sono i palestinesi”. Naturalmente, anche in un tempo che via via diventava proprietà degli algoritmi della semplificazione digitale, che poi contagiava in un rapporto perverso la realtà analogica, c’erano posizioni più complesse e articolate, anche tra chi sceglieva un’appartenenza netta. Ma insomma: sia il dibattito politico sia quello giornalistico hanno sempre più marcatamente attribuito al racconto e alle posizioni sul conflitto mediorientale una funzione di identità e di identificazione. Ti dico con chi sto, per dirti chi sono, e per dire a te (e)lettore che siamo della stessa pasta: succedeva e succede sul Medioriente, ma anche su altre questioni identitarie. È un meccanismo di reciproco rafforzamento, per una copia, un voto, o un click in più, e spesso è difficile capire se sia nato prima l’uovo o la gallina, o non cedere al dubbio che in realtà siano due galline.

Naturalmente, le eccezioni ci sono state, anche se rare. Parliamo di quelle voci intellettuali, giornalistiche e politiche capaci di tenere un punto di convinzione e analisi non ancillare al consenso, magari di creare, più o meno volontariamente, scuole di epigoni, più o meno dotati. Non sono necessariamente figure che portano pensieri “terzi” rispetto ai binari. Anzi, per la loro autorevolezza e profondità, sono state prese a fonti di ispirazione o issati a padri nobili, citati o impliciti, consenzienti o più spesso no. Parliamo di voci che vengono lette con costanza anche da chi sa che spesso non condivide, a patto di sapere che da chi ha convinzioni profonde e diverse si può molto imparare, se dotato di categorie solide e argomenti. Quando succede che cambino idea o tono, ovviamente, ha un peso specifico che cambia la traiettoria. È quello che è successo per lo scritto di Omer Bartov, tra i più importanti studiosi della Shoah e di genocidi: “La mia conclusione inevitabile è che Israele sta commettendo un genocidio contro il popolo palestinese. Sono cresciuto in una famiglia sionista, ho vissuto la prima metà della mia vita in Israele, ho prestato servizio nell’esercito israeliano come soldato e ufficiale e ho trascorso gran parte della mia carriera studiando e scrivendo sui crimini di guerra e sull’Olocausto, quindi è stata per me una conclusione dolorosa da raggiungere, a cui ho resistito il più a lungo possibile”, ha scritto sul New York Times del 15 Luglio.

Nel dibattito italiano delle ultime settimane, gli scricchiolii si erano fatti sentire, sempre più netti. Anche su giornali storicamente attenti alle ragioni di Israele, che magari avevano messo in prima pagina la cacciata dei turisti israeliani da qualche ristorante ma non le macerie di Gaza che pure erano raccontate in maniera encomiabile dai cronisti nelle pagine interne, si leggevano accuse più esplicite allo stato Paria nel quale Netanyahu aveva trasformato Israele. Ma il vero velo, quella costante paludatura che legittima l’appartenenza anche di fronte all’abominio, l’ha squarciato Giuliano Ferrara ieri, sul Foglio. Il fondatore di un quotidiano che è da sempre e senza dubbio paladino dei “valori dell’Occidente democratico”, e convinto difensore delle ragioni di Israele, ripercorre con coerenza le sue convinzioni. Riparte dal 7 Ottobre, dalla propria convinzione – espressa con costanza in questi due anni, quasi – che non ci fosse alternativa ad un’azione militare durissima da parte di Israele. Non smette di indicare in Hamas il responsabile iniziale del circolo, ben prima del “pogrom del 7 Ottobre”, ma quando esattamente vent’anni fa l’Israele di Sharon lasciò la Striscia di Gaza e ne ottenne “sinagoghe bruciate”. Neanche questa volta sembra ritenere importante e poi decisiva la deriva interna alla politica israeliana, la colonizzazione come forma della mente e soprattutto dei corpi, incarnata nel e cavalcata dal cinismo di successo di Netanyahu, che qui abbiamo provato a raccontare. Ma quel che più conta, la vera e rilevante variazione di rotta, è la definizione di un “conflitto al di là del bene e del male”. Ribadendo la solidarietà alle scelte post-7 Ottobre, scrive Ferrara che non avrebbe “mai pensato che le cose si sarebbero disposte in un circuito infernale, come la Riviera di Gaza (il riferimento è al delirante video diffuso da Trump, ndr) e una strisciante annessione per fame. Un conto sono le vittime di guerra, il martirologio di ogni giorno amministrato dagli assassini terroristi, un conto è tollerare un universo concentrazionario senza scampo in un territorio di cui sei responsabile. Il cinismo delle diplomazie che riconoscono come stato sovrano il pulviscolo di terrore in cui è caduto il popolo palestinese porta dove nessuna democrazia dovrebbe farsi portare: alla delegittimazione dello stato ebraico attraverso la sua mostrificazione. A questa maledizione Israele in guerra ha il dovere di reagire”.

Naturalmente, i sempre-critici diranno che è “troppo poco, troppo tardi”. Sicuramente sarebbe interessante discutere delle questioni di cui scrivevo poco sopra, e dell’impostazione generale per la quale ha grande importanza la protezione della reputazione di Israele dall’infamia e dall’abominio che sta perpetrando sulla pelle del popolo di Gaza. Prevengo tutte le obiezioni, che conosco, per tornare al punto di fondo: questo articolo segna un cambiamento di clima importante. Il riconoscimento dello Stato di Palestina come fa Macron, o la sua negazione perché “i tempi non sono maturi” come democristianamente dice Giorgia Meloni, rientrano al massimo livello nel meccanismo di presa di posizione politica che serve a dichiarare identità. Più importante, se ci fosse ancora una élite disposta a cambiare idea e poi a discuterne in modo che cambi l’azione politica, e se ci fossero ancora giornali che riconoscono che in certi momenti la propaganda pro-Israele oltre che sadica per le vittime della guerra è patetica per chi la firma, sarebbe leggere e meditare queste parole di Giuliano Ferrara:

“Uno stato e un popolo che dal 1948 si battono per sopravvivere diventano ora il centro psicologico di una delegittimazione etica che investe ebrei e gentili, nazione e diaspora, e che ha avuto sbocco nella messa in discussione di questa stessa ansia di sopravvivenza, identificata con l’annientamento e la cacciata di un altro popolo senza scarpe, senza acqua, senza farina.
Il gabinetto di guerra e il governo di Israele, la Knesset, il capo dello stato, le istituzioni libere e le voci di stampa e informazione libere, l’esercito dovrebbero discutere di questo materiale maledetto e strisciante, di questo serpente che è diventato il propulsore della guerra umanitaria contro Israele, della sua condanna e del suo confinamento nel male assoluto della malnutrizione, della perdita di controllo di una forza occupante sul territorio e su chi lo abita, vecchi donne e bambini. Hamas lo ha capito, ha truccato le carte con una tecnica terroristica capace di indurre Israele, l’esercito occupante che quasi due decenni fa aveva lasciato quelle terre nella speranza di districarsene e aveva avuto in cambio l’incendio delle sinagoghe e il potere del terrore con Hamas, a negare la questione della disumanizzazione finale in una guerra giusta, con gli ostaggi ancora incarcerati, vivi e morti, nelle segrete dei terroristi. Questa inversione delle parti è una sciagura incommensurabile. Mettere fine a questo scandalo è parte decisiva della autodifesa di Israele, oltre che un dovere di umanità che supera ogni formula ideologica di tipo umanitarista”.

Mettere fine a questo scandalo, sì, dovrebbe essere l’unico obiettivo di uomo e donna, di strada e di governo, di buona volontà. Ma ovviamente – questo è il mio pensiero, ovviamente – Netanyahu ha esattamente l’obiettivo opposto. Lo scandalo che sta distruggendo un popolo e, secondariamente quel che restava dell’anima democratica del suo paese, è in realtà un’assicurazione sulla sua vita politica. Nell’enormità dello scandalo umanitario, un altro scandalo, non proprio da poco.

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