
Medio Oriente
Iran, «l’unico regime change sono le rivolte di operai, donne e studenti»
Cosa sta succedendo e che impatto può avere la guerra sul regime teocratico di Teheran, ma soprattutto su una popolazione che da anni si mobilita? Lo chiediamo ad Alì Ghaderi, dirigente dei Fedayn del Popolo Iraniano, parte della Resistenza iraniana
Mentre era appena partito il riposizionamento tattico dei governi occidentali nei confronti di un imperialismo di Israele sempre più indifendibile anche per loro è arrivato l’attacco all’Iran, che ha fatto fare una mezza marcia indietro alle cancellerie europee e, in parte, anche agli Stati Uniti. Cosa sta succedendo e che impatto può avere la guerra sul regime teocratico di Tehran, ma soprattutto su una popolazione che da anni si mobilita nelle piazze per contrastarlo e che oggi è sotto le bombe? Lo chiediamo ad Alì Ghaderi, dirigente dei Fedayn del Popolo Iraniano, parte del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana.
Che cosa sta succedendo in Medio Oriente? Sembra che la crisi della potenza americana permetta ad attori minori come Israele di fare quel che vogliono.
In effetti si sommano diverse debolezze: da un lato la crisi del governo iraniano, che è molto profonda e dura da parecchi anni; dall’altro il pantano in cui si è infilato Netanyahu a livello interno e con la sua politica a Gaza e nell’intera regione. Poi, naturalmente queste debolezze incrociano la debolezza degli Stati Uniti, che è visibile in tutti i campi – dalla politica in senso stretto all’economia: i dazi, ma anche la richiesta ai paesi NATO di portare la spesa militare al 5% del PIL, che significa che gli Stati Uniti non riescono più a pagare per loro. Poi c’è la debolezza della Russia: Putin si è cacciato anche lui in un pantano, anche se all’apparenza sembra che possa uscirne vincitore, ma quella ucraina è una guerra costosissima e va avanti da parecchi anni. Infine la debolezza della politica estera cinese, che deve rimanere sullo sfondo perché la questione di Taiwan è sempre aperta.
E l’Europa?
L’Europa sembra un’orchestra stonata, in cui ognuno suona una canzone diversa. Lo vediamo anche in queste ore al G7 in corso, in cui i paesi europei e gli Stati Uniti stanno già litigando su chi dovrebbe fare da mediatore nel conflitto tra Israele e Iran.
Che impatto avrà l’attacco israeliano sul regime? È possibile un regime change e con quali conseguenze?
Intanto a scanso di equivoci voglio dire innanzitutto che questa è una guerra interimperialista per la supremazia nella regione tra uno Stato che da decenni gioca il ruolo di guardiano del Medio Oriente sotto il controllo americano e un regime teocratico dittatoriale che dal 1981 opprime il popolo iraniano. Detto questo noi non accettiamo nessun regime change e nessun intervento di un governo straniero nel nostro paese, perché crediamo che in Iran il cambio di regime possa avvenire solo attraverso le rivolte popolari che ci sono già da anni – rivolte fatte da studenti, donne, operai, insegnanti, medici, infermieri e avvocati. Ma c’è un altro aspetto: il regime change non ci sarà perché gli Stati Uniti non hanno alcun interesse a che avvenga, poiché non considerano il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, cioè l’unica alternativa democratica per l’Iran, un’alternativa affidabile. Gli Stati Uniti hanno sempre preferito provare a blandire il regime piuttosto che buttarlo giù e sostituirlo, lo vediamo sin dall’epoca della guerra Iran-Iraq, col famoso scandalo Iran-Contras, ma anche le trattative sul nucleare che vanno avanti da molti anni confermano la mia tesi, con gli iraniani che cercano di prendere tempo e gli americani che glielo concedono. Qualcuno potrebbe chiedere: ma allora perché l’attacco israeliano? Perché è un progetto israeliano di lunga data. In Siria, come si è visto, ha avuto successo. Poi non chiedetemi cosa sia successo nelle trattative con la Russia e l’Iran per convincerli a lasciare la Siria da sola. Non saprei rispondervi, ma resta il fatto che in Siria Israele ha centrato l’obiettivo. Quanto agli effetti veri dei bombardamenti a tappeto sull’Iran, la realtà è che non possono mettere in ginocchio il governo, ma solo il popolo iraniano.
Un attacco agli impianti energetici, ad esempio, precipiterebbe la società iraniana in una crisi devastante?
Sì, perché l’economia iraniana non ha un’industria manifatturiera, a parte quella legata al settore militare. Perciò è di fatto un grande supermercato dell’energia: vende petrolio e gas ai suoi alleati, produce derivati del petrolio e ha anche un grande mercato nero dell’energia, le famose navi fantasma. Perciò se dai porti iraniani non partono gas, petrolio e derivati ci saranno enormi problemi. La popolazione non se la passerà bene. E la minaccia iraniana di chiudere lo Stretto di Hormuz in segno di ritorsione è difficile da attuare – l’unico modo sarebbe affondare decine o centinaia di navi – e dubito che Tehran voglia chiudere i rubinetti alla Cina. D’altra parte i raid contro le fonti energetiche sia da parte di Israele che da parte dell’Iran vanno avanti per gradi e riflettono le rispettive strategie politiche. Quella iraniana è portare Israele al tavolo dei negoziati e io penso che alla fine Israele si siederà a quel tavolo e non per i danni che l’Iran gli sta infliggendo. Il vero problema è che la società israeliana non è in grado di accettare questa situazione e lo si vede soprattutto negli appelli di Netanyahu a non scappare in Grecia e a Cipro e a tornare a casa per chi già è fuggito. In più l’attacco all’Iran sta creando attorno a Tehran una certa simpatia. Quando il re dell’Arabia Saudita, storico nemico del clero sciita, dice “Noi non siamo d’accordo con l’attacco di Israele ai nostri fratelli musulmani”, non è solo un fatto formale.
Ramtin Ghazavi, il tenore iraniano della Scala, dice che la guerra è l’unico modo per cacciare gli ayatollah. I Pahlavi inneggiano all’attacco israeliano e si dicono pronti a governare l’Iran.
Io credo che nella situazione iraniana sia impossibile che la famiglia reale e soprattutto questo erede possano entrare in qualche strano equilibrio che consenta loro di tornare a governare il paese. Quindi non sono un’alternativa. Non hanno basi sociali né organizzazione. Anche perché l’Iran non è l’Afghanistan né l’Iraq. Quanto alla guerra come motore del cambiamento l’Iran di guerre ne ha fatte e non è mai cambiato nulla. In Iran l’unico attore che può promuovere un cambiamento e una caduta del regime, come dicevo, è la popolazione, sono le rivolte popolari, l’organizzazione degli operai, degli insegnanti e poi le organizzazioni classiche, storiche, in parte noi, in parte i Mujaheddin del Popolo possono entrare con la loro classe dirigente e partecipare alla direzione di quelle rivolte insieme a tutti i nuclei organizzati che si sono creati in questi anni man mano che si sviluppavano le lotte. Perciò per la famiglia Pahlavi non c’è alcuna chance, se non qualche comparsata televisiva nel salotto di Vespa o essere ricevuti da Netanyahu in camera caritatis nei corridoi del governo. Il tenore, invece, lo paragonerei ai giornalisti italiani, che in questi anni come abbiamo visto sono diventati tutti virologi, economisti, esperti di Palestina e di Ucraina e ci hanno spiegato vaccini, inflazione e bombe come se parlassero di calcio. E infatti oggi preferiscono parlare al tenore della Scala che a noi.
Per finire il governo italiano appare molto imbarazzato, usa mezzi toni. Si vede che il tradizionale peso delle relazioni commerciali con l’Iran si fa sentire.
Mettiamola così: gas russo non ce n’è, per cui sono costretti a comprare quello americano, che è molto costoso, insufficiente e soprattutto ingrassa solo le tasche americane. Perciò se non arrivasse più il petrolio iraniano, che qui, anche se non se ne parla, arriva in grandi quantità, e se poi non arrivasse neanche il petrolio del Qatar, perché magari gli iraniani decidono di colpire anche i giacimenti della regione, finisce che devono davvero andare in ginocchio da Putin.
Intervista tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info del 17 giugno.
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