Medio Oriente
La terza via di chi è senza speranza
Nè guerra nè diplomazia. C’è chi tifa per un’altra soluzione del conflitto israelo-palestinese
C’è chi non ci crede più in Palestina e neppure in Israele. Non alla soluzione così spesso evocata: due popoli, due stati. C’è chi non non crede più a nessuna via militare e a nessuna via diplomatica per dirimere il conflitto.
Cecilia Sala, inviata di guerra per Cora media e Il foglio, ha realizzato parecchi incontri sul campo e ne ha riferito l’esito nel suo ultimo libro I FIGLI DELL’ODIO.
C’è una soluzione, in particolare, che il futuro dirà, magari neanche tra non molto, se è plausibile come possibile esito del conflitto. Con il problema dei brividi che fa venire anche solo a riferirla.
A immaginare questo scenario è Imad Abu Awad, giornalista e analista per Al Jazeera. Il suo ufficio a Ramallah è stato chiuso dall’esercito israeliano e lui ha fatto 9 mesi di prigione, in detenzione amministrativa, senza un’accusa formalizzata.
Imad è laureato in Scienze politiche e sta studiano per prendere un dottorato in filosofia. Parla ebraico in modo fluente, ha studiato all’università ebraica di Gerusalemme. Aveva il compito di raccontare al pubblico arabo della tv qatariota cosa succede in Israele.
Racconta a Cecilia Sala che in carcere si è fatto un’idea nuova di come uscire dal conflitto.
«Secondo Imad, la soluzione più probabile a tanti problemi palestinesi arriverà da una guerra civile in Israele. Perché “quando si punteranno i fucili addosso gli uni contro gli altri avranno meno fucili da puntare contro di noi”…il collasso di Israele non verrà da fuori ma da dentro…dalla collisione con gli alleati e soprattutto dalla collisione secondo lui inevitabile tra i due Israele, tra il paese che crede nello stato di diritto e il paese degli estremisti. E i palestinesi forse sapranno cogliere l’occasione e usarla a proprio vantaggio» (Sala, pag. 92-93).
E’ il grido levato a marzo scorso in un articolo sul sito web di Channel 7 da Matan Kahana, membro della Knesset: «Finché combatteremo nemici esterni, credo che l’esercito israeliano sarà in grado di sconfiggerli. Ma ciò che ci minaccia ora è un pericolo molto più grande: la disintegrazione interna. C’è un rischio reale che potremmo raggiungere una situazione in cui ‘un uomo si opporrà a suo fratello”… Nessuno vuole una guerra ‘civile’ in Israele, ma chiunque abbia gli occhi aperti può facilmente immaginare uno scenario che ci porti [a ciò]”.».
Ma anche quello di Aharon Barak, 88 anni, che è stato sia Procuratore generale che presidente della Corte Suprema: «Il Paese è spaccato su Netanyahu…La polizia sta diventando violenta Prima o poi qualcuno inizierà a sparare» (Repubblica, 22/03).
Un anno dopo il 7 ottobre il quotidiano Haaretz ha scritto che «la guerra ha fermato la guerra civile». Tutti ricordiamo le manifestazioni molto partecipate del 2023 contro la riforma giudiziaria voluta da Netanyahu che i manifestanti chiamavano “colpo di stato”.
Secondo un sondaggio dello stesso quotidiano, dell’agosto 2024, quasi la metà degli israeliani, il 46 per cento, teme una guerra civile nel proprio paese.
«Imad fa parte della maggioranza più che silenziosa, ammutolita dal dolore. Imad, come la maggioranza dei palestinesi, non crede più alla diplomazia. Come la maggioranza dei palestinesi non si fida dei leader del suo popolo. Ed è sullo scontro tra gli israeliani…che punta un palestinese senza carte in mano come lui. Tifa l’implosione dall’interno di un nemico troppo forte, perché non sa più in che altro sperare» (Sala, p. 96).
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