Arriva il QE: le acrobazie di Draghi per salvare l’Europa

:
21 Gennaio 2015

L’atteso giovedì 22 gennaio è arrivato: finalmente super Mario Draghi dovrebbe annunciare il quantitative easing, per gli amici QE, un’operazione che ha l’obiettivo di rilanciare la domanda in Europa. Come funziona è stato spiegato molto bene sul Post: sostanzialmente, la Banca centrale presieduta da Draghi si impegna a rilevare dalle altre banche una quota non indifferente di titoli tossici o rischiosi (come, ad esempio, quelli del debito pubblico italiano) a condizioni molto vantaggiose.

Le banche, alleggerite così nei loro bilanci dalla presenza di questi titoli, dovrebbero utilizzare il denaro ricevuto per rilanciare le linee di credito: maggiore liquidità, dunque, e maggiore spesa. Tale misura avrebbe anche un effetto inflattivo immediato che, però, costituisce proprio un obiettivo della BCE: serve, infatti, un po’ di inflazione (l’obiettivo è il 2%) per allentare la spirale di immobilità della domanda europea, ancora invischiata in un pantano ingarbugliato.

La maggiore inflazione e la maggiore domanda dovrebbero poi portare a una svalutazione dell’euro, con effetti positivi in termini di esportazioni (i beni europei costeranno meno relativamente a quelli americani, per dire) ma negativi per quanto concerne il potere d’acquisto: gli europei dovranno pagare di più per acquistare il petrolio, tra gli altri beni.

Si succedono, rispetto al QE, scenari su scenari: fior fior di analisti dicono la loro e molti prevedono un effetto non pari alle attese. Il fatto è che, per l’ennesima volta, l’UE mostra il suo enorme limite: non si tratta di un’unione politica reale né di una compiuta federazione. È un club di stati sovrani, piuttosto, ognuno guardingo nei confronti dell’altro, che stentano ad armonizzare obiettivi e politiche (fiscali e monetarie). Draghi è un governatore della Banca Centrale frenato, nei suoi poteri, dal peso tedesco, e non può far altro che tentare un second, quando non un third, best, per cercare di spingere l’Europa fuori dalla crisi: una sfida gigantesca.

Quello che sembra dunque evidente è che, a prescindere da come andrà il QE,  bisognerebbe davvero lavorare di QI, perché rimane irrisolto il nodo centrale dell’Unione: il fatto, cioè, che non rappresenta veramente una federazione politica, tanto più in momenti delicati come questo, dove pulsioni nazionaliste e xenofobe alimentano le spinte separatiste. Un articolo che scrissi due anni fa per iMille, ahimè, conserva ancora una sua drammatica attualità e, per questo, lo riprendo qui, attaccandolo letteralmente a questo post. Repetita dovrebbero iuvare, anche se così non pare davvero.

Verso il 1840, in Europa, c’era uno stato con le finanze floride e felici, non toccato dalla crisi che, invece, colpiva molte altre nazioni.

Era il paese con il rendimento sul debito pubblico più basso, l’economia più ricca dell’area, un’industria moderna e ricca. Rispetto agli stati limitrofi, godeva della fiducia dei mercati internazionali e gli investitori, quindi, non esitavano a finanziarne i titoli. Il fatto curioso, però, se qualcuno sta pensando alla Germania, è che non stiamo parlando del paese di Angela Merkel.

No. Protagonista del nostro racconto, infatti, è il Regno delle Due Sicilie, con particolare attenzione agli anni che vanno dal 1840, circa, alla creazione del Regno d’Italia. Già, perché una storica belga, Stephanie Collet, con un certosino lavoro di raccolta di dati giornalieri negli archivi delle Borse valori del tempo (Parigi e Anversa, che erano un po’ il Dow Jones del Risorgimento), ha realizzato uno studio basato su un ragionamento semplice: l’Italia del periodo pre-unitario, con un gomitolo di staterelli ognuno con la propria tradizione culturale ben specifica e, sopratutto, un governo autonomo e un’imposizione fiscale indipendenti, rappresenta un setting sperimentale ideale per fare delle riflessioni sulla situazione odierna, con un’Unione Europea che dibatte su una maggiore integrazione o, viceversa, sulla dissoluzione finale per manifeste ragioni di incompatibilità.

Usare una lente di ingrandimento sul passato, in questo caso, è quanto di più utile e salutare, in modo particolare perché, proprio in Italia, movimenti politici come la Lega guadagnano consensi insistendo nel presentare l’Europa come un complotto finanziario-oligarco-teppista (e forse c’è dietro pure la Juve). Quindi, nulla è più responsabilizzante di servirsi dell’Italia di allora come benchmark per l’Europa del domani. Ma anche nel 1850 c’era una qualche piccola vedetta lombarda che remava contro? I dati mostrano, appunto, che fino al 1860 la situazione era piuttosto chiara. La Collet si serve dei tassi di interesse sul debito di 4 Stati: Regno delle Due Sicilie, Regno di Sardegna, Lombardo-Veneto e Stato Pontificio. Come detto all’inizio dell’articolo, Napoli era allora la Berlino d’Italia e le finanze del Regno delle Due Sicilie erano agevolate da tassi di interesse sulla rendita molto bassi.

In un mio studio pubblicato sulla Rivista Italiana di Storia Economica, ho cercato di mostrare come già la spedizione dei Mille fosse un ottimo esempio di come i mercati scommisero sulla caduta del Regno dei Borbone.

Ma cosa avvenne dopo Teano? Uno dei primi atti di Vittorio Emanuele II fu l’istituzione del Gran Libro del Debito Pubblico del Regno d’Italia: i titoli degli altri stati confluirono, dunque, all’interno di un unico Btp. Continuando con le licenze poetico-finanziarie, potremmo a tutti gli effetti considerarlo una specie di euro-bond ante-litteram. Il 44% del debito pubblico del neo-nato stato era costituito dai precedenti titoli piemontesi; il 29 % da quelli dell’ex Regno delle 2 Sicilie. Il resto si divideva tra le rendite degli altri Stati pre-unitari. E come reagirono i mercati all’unificazione del Regno? Non bene, inizialmente, il che si tradusse in un aumento del tasso di interesse sul titolo nazionale emesso dalla monarchia sabauda (6,9% contro il 4,3% della rendita dei Borbone). Il costo del debito pubblico della nuova ‘federazione’, insomma, lievitò nel bel mezzo di una prima fase di forte turbolenza e volatilità finanziaria.

Non è difficile capire, dunque, perché la Germania, oggi, resista tanto all’idea di titoli del debito sovrano europei: il tasso di interesse più alto penalizzerebbe le finanze tedesche con un esborso di diversi miliardi di euro. L’incertezza rispetto alle sorti di una federazione europea è verosimile possa determinare delle frizioni, nel breve, che andrebbero a intaccare il tasso di interesse in modo significativo. Tuttavia, Stephanie Collet mostra anche nel suo articolo che, con il completamento del processo di unificazione (e l’annessione di Roma e Venezia), dopo il 1870 lo spread cominciò a calare sensibilmente.

Insomma,  i mercati internazionali avevano ormai pienamente metabolizzato il processo di creazione di un nuovo Regno unitario, la cui irreversibilità era chiara già da un decennio ma che aveva richiesto un fisiologico periodo di assestamento. Spostando l’attenzione ai giorni nostri, in virtù di questo esempio privilegiato che ci consente di ‘vedere’ il futuro o, quanto meno, di suggerirne il percorso, sarebbe il caso che le trombe, o meglio i tromboni, dell’anti-europeismo, fautori di un tragico ritorno alla lira, si andassero dunque a studiare un po’ la storia del paese che sostengono di voler difendere. Il futuro ci imita e speriamo che un Risorgimento europeo getti le basi per un’irreversibile integrazione tra stati, più che un drammatico conflitto di incomprensioni.

TAG: mario draghi, Quantitative Easing, risorgimento
CAT: Euro e BCE, macroeconomia

Nessun commento

Devi fare per commentare, è semplice e veloce.

CARICAMENTO...