Lo spettro della deflazione, le incertezze sul quantitative easing della Bce, la crescita che non c’è e da ultimo il taglio del rating sul debito pubblico italiano da parte di S&P (da BBB a BBB-, dunque a un passo dal livello speculativo) sono tutte pessime notizie per la sostenibilità del debito dell’Eurozona che rimane uno dei maggiori fattori di rischio per l’economia globale. A questi elementi di preoccupazione, si aggiunge l’avanzata di nuove leadership che dalla Grecia alla Francia passando per l’Italia cavalcano la protesta coagulando sentimenti antieuro. Eppure, per molti la riflessione sulla sostenibilità del debito pubblico è immediatamente evocativa dello spettro del default, e perciò si preferisce non affrontare il problema e prendere tempo.
Ma se il problema del debito è alla radice della crisi dell’Eurozona, è utile ritornare sul tema delle misure per affrontarlo. Lo farò partendo dalle reazioni contrariate suscitate dal mio precedente articolo “Guardiamo in faccia la realtà e iniziamo a parlare di default”. Da un lato, vi è consenso sul fatto che servano misure straordinarie e che si debba agire sugli stock e non sui flussi: abbiamo imparato a nostre spese che gli avanzi primari in recessione deprimono ulteriormente l’economia. Ma la prospettiva di un default domestico seppur controllato spaventa ancora molti. Alcuni lo considerano una patrimoniale (anche se sul fatto che i titoli di stato siano ricchezza privata si dibatte dai tempi di Ricardo, passando per Robert Barro), altri invece ritengono inefficace qualunque soluzione al di fuori del quadro europeo che non preveda regole severe contro il moral hazard, cioè la tentazione di ritornare poi a indebitarsi (vedi “Default, l’obiezione principale è che non ci si fida dello Stato”). Ancor prima di considerare queste valide obiezioni, stabiliamo che su questi pixel d’ora in avanti non parleremo di default, ma di ristrutturazione volontaria del debito. Le parole contano: non agitiamo spettri dai riflessi argentini ma da cittadini responsabili ragioniamo razionalmente su soluzioni alternative al nostro più grande problema con il conforto di analisi e dati.
Una proposta che va in questa direzione è il piano PADRE sviluppato da Pierre Paris e Charles Wyplosz. Le premesse di questo piano – il cui nome è l’acronimo di Politically Acceptable Debt Restructuring for the Eurozone (Ristrutturazione politicamente accettabile del debito per l’Eurozona – sono note e condivise. Il debito medio dell’Eurozona è ormai pari al 95 per cento del Pil e l’eccessiva spesa per interessi affossa le prospettive di crescita delle economie più deboli. I paesi periferici, tra cui l’Italia, dato il livello stratosferico del debito non hanno più margine per attuare politiche espansive anticicliche. I loro governi hanno esercitato poi tutta la moral suasion possibile sulle banche nazionali per farsi finanziare i deficit, con la conseguenza che le banche sono diventate tanto rischiose quanto i governi a cui prestano. E per questo motivo hanno smesso di fare credito, mettendo a repentaglio la loro solvibilità senza che vi sia di fatto una banca centrale come prestatore di ultima istanza, funzione che la BCE per statuto non può svolgere. La conclusione è che il livello di debito pubblico attuale è di fatto insostenibile. Sarebbe già alto per chi ha una banca centrale nazionale, figurarsi per paesi come l’Italia. E deve quindi essere ristrutturato. Procrastinare l’intervento nella attesa di uno shock positivo esogeno è rischioso in quanto aumentano le probabilità di un vero default, inatteso e distruttivo perché incontrollato.
Il piano PADRE prevede uno schema di ristrutturazione del debito in chiave europea che tiene conto di tre vincoli fondamentali. Primo, non sono ammessi trasferimenti di risorse dai paesi meno indebitati a quelli più indebitati, poiché politicamente inaccettabili, nel rispetto della no bail-out clause prevista dai Trattati europei. Secondo, si deve evitare di infliggere perdite sugli attuali obbligazionisti soprattutto per scongiurare possibili fallimenti bancari che potrebbero generare crisi sistemiche. Terzo, si esclude la monetizzazione del debito da parte della Bce, un’operazione in contrasto con la sua missione di mantenimento della stabilità dei prezzi.
Come funziona in pratica il piano Padre? A livello europeo, si identifica un ente (la Bce, ma potrebbe anche essere l’European Stability Mechanism) che acquista titoli di stato in scadenza fino a un raggiungere un determinato ammontare. Per ragioni che chiariremo tra un attimo, gli acquisti di titoli nazionali sono proporzionali alle quote che i singoli paesi detengono nel capitale della Bce. Per procedere agli acquisti, l’ente emette sul mercato proprie obbligazioni nei tempi e nelle quantità corrispondenti ai titoli di Stato in scadenza. Acquistati i titoli, vengono immediatamente convertiti in titoli irredimibili (perpetuities, non hanno cioè scadenza) emessi da relativo Stato a interesse zero. La conversione implica che la quota corrispondente di debito pubblico dei paesi coinvolti viene immediatamente cancellata. Dovendosi finanziare sul mercato e detenendo titoli che non producono interesse, l’ente opera strutturalmente in perdita. Ogni paese che partecipa a piano istruisce quindi la Bce di trasferire la propria quota profitti (principalmente il gettito da signoraggio) direttamente all’ente. Essendo questa quota proporzionale alla partecipazione che il paese ha nella Bce, questo trasferimento di segno inverso controbilancia l’esborso iniziale dell’ente, eliminando i trasferimenti tra paesi.
Cosa comporta l’attuazione del piano? Primo, il debito convertito non verrebbe più scambiato sul mercato, eliminando il problema del rischio sovrano nell’eurozona. I tassi di interesse nominali scenderebbero di colpo, ponendo fine alla frammentazione del mercato determinata dagli spread. Secondo, i governi indebitati potrebbero riconquistare la propria sovranità fiscale e attuare finalmente politiche anticicliche, in un contesto di riduzione strutturale dei tassi di interesse. Terzo, nessun obbligazionista subirebbe perdite, anzi dati i minori rischi di default, i titoli rimasti in circolazione guadagnerebbero valore. Infine, non ci sarebbero spinte inflazionistiche perché la Bce non monetizzerebbe il debito ma utilizzerebbe i profitti futuri da signoraggio.
Quali sono gli effetti di PADRE sulla finanza pubblica dell’Eurozona? Il valore dei debito in circolazione a fine 2014 è pari a circa 9.400 miliardi di euro. Assumiamo che il piano preveda la conversione della metà del debito totale, circa 4.600 miliardi. Avendo l’Italia il 17,84% del capitale della Bce, l’operazione consentirebbe la riduzione di 1.276 miliardi del proprio debito e di arrivare a un rapporto debito-PIL da sogno pari all’80 per cento, con un risparmio strutturale di interessi di circa 35 miliardi. Il piano PADRE consiste quindi in una gigantesca operazione di cartolarizzazione del gettito futuro da signoraggio. Sarà sufficiente a coprire il costo del finanziamento dello swap? Il signoraggio è il gettito derivante dell’emissione di moneta (a costi pressoché nulli) e dipende dal tasso di crescita dell’economia, che a sua volta determina la domanda di moneta. Assumendo un tasso di crescita costante dell’1,5% e tassi di interesse nominali del 3,5 per cento, gli autori del piano mostrano che il valore attuale del signoraggio futuro può coprire abbondantemente il costo della ristrutturazione. Ovviamente il profilo temporale del piano è fondamentale per la sua fattibilità. La spesa annuale di interessi per l’ente che volesse ristrutturare da subito 4.600 miliardi di debito al 3,5 per cento sarebbero di 150 miliardi all’anno, a fronte di un gettito da signoraggio che inevitabilmente crescerebbe lentamente nel tempo, nell’arco dei prossimi 50 anni.
Il maggior punto di forza del piano PADRE è però anche la sua maggior debolezza. La ristrutturazione è così indolore e ben gestita che genera straordinari problemi di moral hazard. Se posso rimettere a posto i miei conti pubblici così facilmente, tanto vale ricominciare a accumulare debito per poi ristrutturarlo nuovamente. È chiaro che per essere efficace, l’implementazione del piano deve essere una tantum, associata a un patto di sangue sulla sua applicazione che ne garantisca la credibilità. Se uno stato supera la soglia stabilita di rapporto debito-pil (con un margine che consenta flessibilità di correzione per il ciclo) l’ente automaticamente converte per uno stesso ammontare le perpetuities in vecchi titoli di stato e li vende sul mercato, facendone salire gli spread e il conseguente costo di finanziamento per il paese violatore.
Il 28 novembre, Giorgios Stathakis e Yiannis Millios, gli economisti del principale partito d’opposizione greco Syriza, hanno tenuto un roadshow a Londra con l’obiettivo di presentare il programma economico del partito, che prevede la fine dell’austerity, l’inversione di rotta rispetto alle riforme strutturali imposte della troika e la ristrutturazione del debito. Chiudendo l’incontro a porte chiuse, pare abbiano dichiarato: «Se alla Germania nel 1952 è stato concesso un haircut [un taglio del debito nominale nell’ambito di una ristrutturazione, ndr] del 62 per cento, adesso è il turno della Grecia».
Oggi, però, se i governi si muovono per tempo, abbiamo davanti soluzioni meno drastiche. Il piano PADRE è efficiente: risolve un fallimento del mercato e non infliggere perdite agli obbligazionisti. È flessibile: non tutti i paesi devono per forza aderire. È politicamente accettabile: non comporta trasferimenti fra paesi e non coinvolge necessariamente la Bce. Forse è per questo che non se ne parla.
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