Tre spettacoli e una domanda

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3 Novembre 2014

Nell’ultima settimana, a parte le cariche della polizia contro gli operai, a parte il caso Cucchi, a parte le eterne guerre, il caos a Fiumicino, il nostro solito teatro ha regalato – almeno sulla scena romana – tre scritture diverse, tre drammaturgie che provano, a vario titolo, a fare i conti con il presente.

Dunque iniziamo questa rapida carrellata, e poi arriviamo a una riflessione. Il primo lavoro visto in scena è Quietly, dell’irlandese Owen McCafferty. La mise en espace – di questo si trattava, anche se di qualità – ha aperto la XIII edizione di Trend, la rassegna curata dal critico Rodolfo Di Giammarco dedicata, come ogni anno, alle nuove frontiere della drammaturgia britannica. Come si sa, oltre la Manica, scrivono da sempre (da Shakespeare, in poi, vien da dire) che hanno sempre saputo raccontare il contemporaneo. Dagli “arrabbiati” alla Osborne a Pinter, dai “Nuovi arrabbiati” alla Mark Ravenhill o alla Sarah Kane, ai nuovissimi, gli autori anglofoni si sono sempre presi a capocciate con la realtà.

Il merito dell’instancabile Di Giammarco è di proporre sempre nuovi testi made in UK, scoperti grazie ad una capillare attività di monitoraggio, e di affidarli a registi e attori di qualità che, con poche prove, li rendono fruibili al pubblico.

Dunque McCafferty (nell’agile traduzione di Natalia Di Giammarco) mette in scena un confronto tra due reduci della Belfast anni Settanta. L’uno, cristiano, è figlio di una vittima di un attentato; l’altro irlandese protestante filomonarchico, è l’attentatore che vuole, in qualche modo, fare i conti con il proprio passato. Il testo avviluppa sin da subito nella dialettica della resa dei conti, aspra e necessaria. Necessaria però, vien da pensare, soprattutto a chi l’ha scritta, tanto forte e viva è ancora la memoria di quei fatti. In scena Marco Foschi e Paolo Mazzarelli si impegnano con sincera adesione: sono ottimi attori e lo dimostrano anche in questa prova.

Secondo capitolo: Banane, visto nella rassegna di Dominio Pubblico, al teatro dell’Orologio, della compagnia Teatrodilina, ovvero Francesco Colella, Leonardo Maddalena, Aurora Peres, Mariano Pirrello.

Il testo è di Francesco Lagi, è in sostanza è una sorta di “camera caffè”, il racconto per micro-episodi di un incontro: due amici scapestrati, la lontana cugina di uno dei due che arriva dal paese, l’inevitabile attrazione, loro che dopo un anno vanno a cercarla e la trovano convivente con uno strano personaggio, la crisi, l’amore e l’abbandono consequenziale.

L’ho descritto male, lo so, ma mi faceva un po’ di rabbia vedere quattro attori fantastici – simpatici, belli, bravissimi tutti – a giocare a far i bamboccioni. Mi si dirà: dietro ogni personaggio c’è una complessità: uno è un “fuorisede” (lo vediamo con un libro in mano) che sogna la fuga in Grecia; lei è un’ambigua giovane che fa (o si fa fare) foto di cui non sappiamo molto, che seduce tutti e poi se ne va, finalmente, da sola; l’altro ancora è un ex ricchissimo decaduto, che si aggrappa all’amico per sopravvivere a se stesso; infine il solido “lavoratore” innamorato del suo cane, impiegato in una ditta che imballa banane (donde il titolo) si rivela violento e fallito. Tra disoccupazione e frustrazione, si muovono queste figure umane.

Va bene: ma poi? Il testo, pur divertente, è troppo esile: se là avevamo la guerra civile irlandese ridotta a dinamica da camera, qui abbiamo una dinamica da camera che vorrebbe assurgere a spaccato generazionale e culturale. Mi viene da dire che i singoli attori, che si impegnano a fare questo teatro, sono molto più avanti dei propri personaggi.

Infine: il terzo capitolo. L’inatteso scritto da Fabrice Melquiot e interpretato da Anna Amadori nel cartellone de Le vie dei Festival di Roma, diretto da Natalia Di Iorio. Scrittura impervia, a spirale, ipnotizzante, che per qualche motivo mi faceva pensare da un lato a Marguerite Duras e dall’altro a Bernard-Marie Koltès, L’inatteso è un lungo monologo, un delirante viaggio a ritroso e nel futuro di una donna rimasta vedova di un grande amore. Lentamente, per cenni, frammenti, capiremo che si tratta di un contesto africano, violento, che si evoca una guerra, una sofferenza aspra, una lotta per la sopravvivenza. Per quadri successivi emergono i ricordi, i nuovi incontri, le paure, le nostalgie della donna. Anna Amodori, in scena con il chitarrista Guido Sodo (che evoca sonorità etniche, mediterranee, antillesi e addirittura partenopee), nello spazio, astratto e suggestivo, disegnato da Eva Geatti, è capacissima nel tenere un sottile equilibrio tra gelida distanza e dolente immedesimazione. Amadori porge il testo, oltre che portarlo; ne bisbiglia gli snodi tragici, ne grida i capitoli più d’oggi, legati a una parte della narrazione in cui la protagonista, Liane, scegli di farsi fotoreporter e seguire – snocciolati come un blasfemo rosario – tutti i conflitti degli ultimi anni. Come spesso accade con gli autori d’oltralpe, si paga un certo compiacimento della “parola bella”, della fluorescenza dei suoni, della ridondanza barocca: eppure Melquiot (come dimostra il volume curato da Elena di Gioia), classe 1972, ha talento, apollineo e dionisiaco assieme.

Allora la considerazione finale: l’elemento costante, in tre diversissimi lavori, è la grande qualità interpretativa. Attori coi fiocchi, insomma: e ne siamo felici, perché ci han tenuti incollati alle poltroncine anche quando erano scomodissime.

Ma l’altra questione che si pone, e si ri-propone, è come inventare nuova drammaturgia, e come superare l’endemica difficolta degli autori italiani di guardar oltre il proprio ombelico, di mettere su carta e in bocca agli attori le spinose e irrisolte questioni dell’Italia di oggi. Ovviamente, le eccezioni non mancano e sono notevoli: ma mi par si possa segnalare un compiacimento strano nel non prendere di petto la realtà, se non nei canoni – ormai abusati – del “teatro di narrazione”, che ormai sta stretto pure ai narratori.

Insomma, la domanda è: come portare a teatro le manganellate di Terni?

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CAT: Eventi, Letteratura, Teatro

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