La maternità surrogata e la nostra paura del postumano

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29 Febbraio 2016

Tanto per mettere subito le cose in chiaro: chiunque non sia irrimediabilmente stronzo non può che augurare ogni bene a Nichi Vendola, al suo compagno e soprattutto al piccolo Tobia. Persino i rimediabilmente stronzi dovrebbero prendere le distanze dai vari mostriciattoli della destra reazionaria (clericale, fascista e/o poltronista) che in queste ore stanno vomitando i loro insulti all’indirizzo del leader di Sel. Detto questo, i dubbi e i tormenti di cui scrive Michele Fusco qui sugli Stati rispetto al tema “utero in affitto” – espressione tanto rude quanto esatta – non nascono dal malanimo né da visioni del mondo particolarmente retrive.

Sarebbe comodo ridurre il dibattito sulla maternità surrogata ad un apparentemente inconciliabile scontro tra prospettiva religiosa e prospettiva laica, troppo comodo e del tutto fuorviante. Sono in realtà le singole tradizioni religiose e, soprattutto, il modo in cui le tradizioni religiose hanno risolto il problema della divisione tra Chiesa e Stato a caratterizzare le rispettive posizioni sui temi etici, e proprio la storia della legislazione in materia di maternità surrogata lo dimostra.

Vendola e il suo compagno hanno comprensibilmente scelto uno tra gli stati più liberal d’America, la California, per far nascere il criaturo. Ad aprire alla surrogacy nel 1989 – governatore Bill Clinton – fu però l’Arkansas, una delle roccaforti della Bible Belt. Possibile che in questo abbia avuto un ruolo la grande consuetudine degli evangelici con l’Antico Testamento e, paradossalmente, la loro tendenza al letteralismo di fronte al testo biblico – la stessa che permette ai creazionisti di fissare la creazione del mondo a poco più di cinquemila anni fa?

Sì, è possibile. Basta una scorsa a Bereshit, il libro della Genesi: da Abramo che concepisce Ismaele con Agar (16, 1 s.) a Rachele che attraverso la schiava Bilhah dà Naftali e Dan a Giacobbe, il quale avrà poi altri due figli, Gad e Asher, da Zilpah, schiava di Lia, sorella di Rachele (30, 1-12) le maternità surrogate non mancano, come in tutto il vicino oriente antico (e non solo). E’ quindi soltanto per caso che i cattolici conservatori di casa nostra si trovano singolarmente d’accordo con quei settori del mondo laico che si oppongono in modo altrettanto netto a tale pratica.

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A titolo di esempio, come scrivevo alcuni giorni fa, Marina Terragni e tutto il femminismo della differenza leggono nella maternità surrogata un’inaccettabile forma di sfruttamento del corpo della donna e una forma di violenza al bambino, operate secondo una logica prettamente maschile – che si rivela anche in certi discutibili paralleli con la prostituzione e con la libertà di ogni individuo di “mettere a valore” il proprio apparato genitale. Come se alla base di questa “scelta” non vi fosse molto spesso il contrario della libera scelta, e cioè lo stato di necessità.

Made in India – A film about surrogacy di Rebecca Haimowitz e Vaishali Sinha

Ciò che disturba è l’idea che esista un’industria della procreazione conto terzi per cui valgano le regole del mercato globale e che un bimbo “prodotto” in India costi dal 60 all’80% in meno di uno “prodotto” in California. Proprio come un paio di scarpe o un telefono. E non è tutto, almeno per quanto mi riguarda. Ciò che mi spaventa non è la volontà di una coppia (o di un singolo) di crescere nell’amore un figlio, rimuovendo ogni ostacolo alla realizzazione di questo desiderio. Certo, là fuori milioni di bambini già nati e abbandonati sarebbero pronti a diventare figli, senza bisogno di madri surrogate. Lo scenario che temo davvero è però quello in cui il problema dell’utero in affitto non esisterà più perché non ci sarà più alcun bisogno di affittare un utero.

Sin dalla nostra comparsa come sapiens, ci siamo sottratti alla selezione naturale e abbiamo separato la sessualità (e l’affettività) dalla riproduzione della specie. La scienza ci ha liberati e resi più consapevoli, purtroppo non più saggi. Niente fa supporre che nelle nostre società avanzate questo processo non arrivi un giorno non lontano (siamo nell’ordine di grandezza dei decenni, più che dei secoli) ad un esito estremo, distopico, fatto di procreazione in serie o à la carte, di progettazione del corredo genetico, di selezione operata dallo Stato o dal cosiddetto libero mercato.

Insomma, a spaventarci è l’idea che l’eccezione diventi norma, e che l’unico limite sia quello della tecnica disponibile al momento. Fantascienza, per ora. Storie del postumano immaginate da Aldous Huxley o da Philip K. Dick, viste in Blade Runner e in Gattaca, ipotesi da confrontare con la realtà nel lungo periodo. Quando, fortunatamente, io e voi che mi leggete oggi saremo già morti.

 

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TAG: distopia, industria della procreazione, marina terragni, maternità surrogata, michele fusco, nichi vendola, postumano, uteri in affitto
CAT: Famiglia

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