La carezza della mantide insegna a chiedere ai propri figli “hai mangiato?”

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25 Marzo 2021

Diventare genitore è un evento a cui vengono associati gli aggettivi più vari. Quel velo di mistica tradizionale che accompagna tutte le culture gli affibbia, di solito, quelli più romantici e idilliaci, ma in realtà non è sempre così, anche se in pochi lo ammettono veramente.

Esercitare la responsabilità genitoriale supera l’evento nascita in sé, se ne esula trasformandosi in un’attività quotidiana e molto pratica che, se sei fortunato, ti accompagna magari fino alla fine.
E’ come frequentare “ventiquattro su sette” una palestra fisica ed emotiva fatta di amore e sangue, soddisfazioni e delusioni. Lo si capisce molto bene leggendo il primo libro di Carlo Turati “La carezza della mantide”(Solferino).

Turati, già autore per il mondo Zelig sin dalle origini di Facciamo Cabaret e ancor prima per il trio Aldo, Giovanni e Giacomo, dà voce a Marco Morlacchi, un nome e cognome che già da soli fanno arrotolare la lingua.

Il “Morlacchi” ha avuto un doppio regalo bello e bastardo: l’affidamento delle due figlie adolescenti in seguito alla separazione dalla moglie (“Siediti, che il giudice ha deciso”), che si aggiunge ad una malattia che gli prospetta di vivere per una decina d’anni ancora. Una situazione che detta così fa pensare a una tragedia, se non fosse che la penna di Turati caratterizza il racconto con sapiente trasparenza e una grande dose di umorismo.

La vita poetica del Morlacchi si alterna fra il percorso medico e la cura, ma anche la paura, per due figlie adolescenti, in cui lui prende la rincorsa per recuperare il gap generazionale con loro, molto spesso riuscendoci, e compie un’attesa personale per essere vivo e presente in due momenti milestone (come avrebbe detto forse Turati, il professore, quando insegnava Organizzazione e Management alla Bocconi) delle loro vite: il conseguimento della laurea della prima figlia e il primo voto alle urne della seconda neo maggiorenne.

Un papà che fa delle circumnavigazioni volte ad esplorare l’oceano sentimentale ed emotivo delle figlie senza per questo ricorrere a moine stereotipate e senza dimenticarsi dei bisogni primari.

Arrabbiature, incomprensioni che maturano nella quotidianità del loro appartamento, birre e gin tonic condivisi sul balcone, prestiti di soldi per la pillola, rasoi in bagno e fidanzatini intorno, a cui si aggiunge un pizzico di suspense sull’evoluzione dello stato di salute del Morlacchi.

A una settimana di distanza dalla festa del papà, celebrata sempre idealizzandone le figure come perfetti personaggi da manuale che rispecchiano ruoli sempre troppo stereotipati e la cui presenza si dà, sbagliando, per scontata, Turati ci regala un vero papà presente, tradizionale e innovativo allo stesso tempo, che con un perfetto equilibrio di ironia, dolcezza e cinismo restituisce l’esempio di un uomo che conosce davvero l’aspetto più pragmatico dei sentimenti, quella forma di amore di cui necessita un figlio.

Non so se la storia del personaggio Morlacchi è un po’ anche la storia di Turati, ma la narrazione è così sentita che in certi passaggi mi ha ricordato una frase che ripeteva spesso l’amica Teresa Sarti “essere genitore non ha a che fare con la biologia, ma col chiedere <<hai mangiato?>>”.

TAG: #ilibrichililegge, #ilibriechililegge, #milano, famiglie, NOLO
CAT: Famiglia, Letteratura

Un commento

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  1. andrea-lenzi 3 anni fa

    Digressione lessicale: CUI è latino e la sua traduzione letterale è “al quale”;
    quindi, “a cui”, si traduce “a al quale”, e così via…

    Non so quando sia cominciata questa storia, ma sarebbe il caso di interromperla poiché, se proprio dovessimo scegleire un jolly da usare al posto dei pronomi corretti, allora il cadidato ideale sarebbe “che”

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