La chiamano emancipazione

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13 Novembre 2014

C’è una donna che il figlio se lo è andato a prendere oltre confine, dopo che per tre volte era stata negata a lei e al marito la possibilità di adottare. Non so esattamente che cosa sia successo, da quel che si legge sui giornali la coppia è partita per l’Ucraina e ne è tornata con un neonato, dichiarando che era nato là e che volevano registrare in Italia il loro bambino. Utero in affitto? Compravendita?

Di fatto, verificato che il bambino non possiede il codice genetico di nessuno dei due presunti genitori, dopo tre anni (tre anni?!?) è stato dato in adozione. E se ti metti nei loro panni ti si ferma il cuore, perché fa impazzire l’idea che ti tolgano il figlio che hai accudito, coccolato, addormentato per anni, anche se è vero che i figli non si comprano, punto.

Alla fine, come-si-suole-dire, chi pagherà tutto questo è il bambino, che non è un’astrazione come a volte tendiamo a percepire i protagonisti di ciò che leggiamo sui giornali, ma è un piccolo individuo che profuma di buono come tutti i bambini di tre anni, con sentimenti ed emozioni. E che a quella mamma e a quel papà vorrà bene, e vaglielo a spiegare poi che cosa è successo e come è partita male la sua vita, in mezzo a trucchi e mercanzie.

Poi ci sono quelle che l’ovulo se lo congelano per tempi migliori, quando magari, passati i 50 anni e consolidata la carriera, vorranno soddisfare il bisogno che è dell’anima e del corpo della maggior parte delle donne: quello dell’essere madre. Le aziende più evolute (?), Apple e Facebook, ringraziano e sponsorizzano. E pazienza se non si sa poi come andrà questa inseminazione (destinata a un utero che dovrebbe stare a riposo) di un ovulo che è stato congelato per 20 anni (non subirà danni? Siamo sicuri?).

Per il momento, le probabilità di riuscire ad avere un figlio con queste premesse sono basse: i dati dicono che meno della metà delle inseminazioni in vitro porta a una gravidanza e alla nascita di bambino. Nel caso l’operazione non vada in porto, sarà affare della donna poi metabolizzare la delusione o il rimpianto e il dolore che dà una promessa esistenziale, quella della maternità, non mantenuta. E non sarà facile.

Poi ci sono quelle che il figlio hanno iniziato a cercarlo a oltre 40 anni, prima non si poteva, il lavoro e i soldi e le precarietà professionale e affettiva… Ma non riescono a restare incinte e allora via con l’inseminazione e se sono fortunate, dopo trattamenti ormonali che stroncano corpo e psiche, riescono ad avere il bambino, anzi due, perché si sa come va con la procreazione assistita. E allora le vedi al parco a 45-46-47-48 anni con i gemelli, distrutte, perché un bebé ti stravolge a 30 anni, figurati due, dopo il percorso di una gravidanza a rischio, quando sei in premenopausa. Le altre, quelle per cui le inseminazioni sono fallite, resteranno sempre con il rimpianto o proveranno con l’adozione, altro calvario emotivo e pure burocratico.

Poi ci sono gli errori – e gli scherzi del destino – come quelli commessi da un tecnico di laboratorio che ha scambiato gli embrioni di due coppie durante le rispettive inseminazioni. Una è andata a buon fine, l’altra no e così ora ci sono due gemelli (sic) che hanno una mamma che li ha partoriti e li tiene con sé e una “mamma genetica” che però non li può considerare figli suoi. Un caso senza precedenti per la Giustizia italiana che infatti si trova in difficoltà, tra sentenze e ricorsi da parte delle due sventurate coppie. Un dolore e un’angoscia per entrambe le donne, poverette. Senza contare le conseguenze per quei bambini, che prima o poi sapranno o vorranno sapere…

Sono casi limite di qualcosa che sta avvenendo da tempo sulla pelle delle donne (e dei piccoli), chiamate a incarnare tutti i modelli, la lavoratrice (più o meno di successo), la moglie e la madre, sempre in gran forma però, sexy magari, e disponibile prima in ufficio, poi con i figli a casa, e infine col marito dentro il letto.

La chiamano emancipazione, anche se inizio a nutrire qualche dubbio sulla qualità di questa supposta libertà che stiamo conquistando a prezzo di un’ostinata manipolazione del nostro povero corpo di donna, molto più legato di quello dell’uomo ai cicli della natura, dalla prima mestruazione in poi.

La chiamano emancipazione, ma io vedo tante donne soffrire, vivere male, con sensi di colpa, rimorsi, rimpianti, i corpi feriti, la testa pure.

La chiamano emancipazione, ma poi tutti sono pronti a giudicare perché hai fatto, perché non hai fatto, perché osi sognare stratagemmi poco leciti o per lo meno scorretti pur di arrivare ad avere qualcosa che ti hanno venduto come un tuo diritto, sempre e comunque.

La chiamano emancipazione, ma a volte ho l’impressione che la libertà di scegliere stia tutta da un’altra parte e che quella che ci attribuiamo sia spesso una sorta di corto circuito, tatuato sulla nostra pelle.

TAG: donne, emancipazione, inseminazione
CAT: Famiglia, Qualità della vita, Questioni di genere

4 Commenti

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  1. Micol Long 9 anni fa

    Il significato di emancipazione, se non mi sbaglio, è ”liberazione da uno stato di soggezione, subalternità”: se trovo giusto sottolineare i molti problemi della società contemporanea (quelli qui rilevanti mi paiono economici, ma anche e forse soprattutto culturali, senza dimenticare le gravi carenze nel sostegno statale alla genitorialità), non credo proprio che un ritorno a un modello sociale e familiare di subalternità femminile migliorerebbe la qualità della vita delle donne. Personalmente invoco più parità, non meno: più parità nella cura dei figli, per esempio, come già avviene in alcuni paesi, specialmente del nord Europa, grazie anche alla legislazione (congedi di paternità etc).

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    1. Marta Dore 9 anni fa

      lungi da me l’idea di un ritorno a un modello in cui la donna sia subalterna! non è questo il senso dell’articolo. mi faccio solo delle domande rispetto alle aspettative di cui si caricano le donne oggi, senza per altro essere supportate da aiuti, condizioni economiche, sociali e culturali che rendano queste aspettative più concrete e meno gravose.

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  2. Matteo Saini 9 anni fa

    Grazie Marta, è difficile affrontare queste tematiche senza ridurle al dibattito politico o ideologico, di chi è pro e chi è contro. Invece dall’articolo emerge il livello secondo me decisivo della questione: quello umano, esistenziale. La maternità (come la paternità) sono esperienze umane prima che giuridiche o politiche.
    Quale contributo offre questa consapevolezza al problema delle regole da stabilire, delle libertà da concedere?
    La fretta di chi chiede proposte concrete o addirittura soluzioni è comprensibile (tante le situazioni reali condannate all’incertezza, alla solitudine, a giudizi morali discutibili, al rischio), ma pericolosa. Prima di decidere è sempre bene capire di che cosa si tratta. Come mostra questo articolo, i termini del dibattito pubblico sono spesso distanti dalla realtà umana che vorrebbero giudicare.

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    1. Marta Dore 9 anni fa

      grazie a te, Matteo. È un terreno minato, questo, in cui è molto difficile muoversi con delicatezza e sensibilità. Proprio per questo, come dici tu, è importante non perdere di vista la realtà umana che sta dietro a tante storie…

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