Dei diversi usi di una parola: «genocidio» o «massacro» degli armeni?
In qualsiasi momento di una discussione che miri a risolvere una divergenza di opinioni (cioè a raggiungere una conclusione condivisa), deve essere consentito chiedere di […]
Recentemente, sugli Stati Generali sono comparsi due curiosi articoli, uno dei quali argomentava in favore di una analogia tra quanto stava accadendo nella città di Ferguson e due eventi italiani (Tor Sapienza e caso Cucchi), mentre il successivo sosteneva, al contrario, che tra i casi citati ci fossero differenze (negava cioè il sussistere dell’analogia). In questo intervento ci occuperemo dunque delle tecniche argomentative basate sulle analogie. Partiamo da una domanda elementare: che funzione hanno le analogie?
Quando argomentiamo, facciamo ricorso a varie giustificazioni per le nostre posizioni. In definitiva, però, se non applichiamo regole o dogmi indimostrati e indimostrabili, facciamo ricorso a varie forme di argomenti basati sull’esperienza, in gergo detti a posteriori.
L’esperienza si basa su somiglianze che scopriamo tra gli oggetti e i fenomeni (e sembra che abbiamo una capacità innata di individuare le somiglianze, come può constatare chiunque abbia avuto a che fare con i neonati). Tali somiglianze ci inducono ad aspettarci effetti simili a quelli che abbiamo visto derivare da tali oggetti e fenomeni.
Il problema è che, sebbene le somiglianze possano essere fuorvianti o non provare alcunché, la maggior parte delle inferenze della vita quotidiana sono però basate sull’analogia. Essa è alla base dei ragionamenti che dall’esperienza passata portano verso quella futura (altrimenti la storia non potrebbe essere per noi magistra vitae).
Facciamo qualche esempio: 1) inferisco che un nuovo computer mi servirà bene basandomi sul fatto che le prestazioni di altri computer della stessa marca mi hanno lasciato soddisfatto; 2) il bambino teme il fuoco, dopo essersi scottato una volta; 3) devono esserci altre forme di vita, nell’universo, esistono infatti molti pianeti simili alla terra.
Se ci pensiamo un po’, nessuno di questi argomenti è certo o dimostrato. Nessuna delle conclusioni segue con necessità “logica” dalle premesse. È logicamente possibile che la terra sia l’unico pianeta abitato, che il nuovo computer sia insoddisfacente, che un fuoco scotti e un altro no: nessun argomento per analogia è “matematicamente” certo. Ciò significa che gli argomenti analogici non sono classificabili come validi o invalidi: Tutto ciò che si può richiedere loro è una certa probabilità.
È possibile usare un’analogia anche per ravvivare una descrizione (come negli usi letterari dell’analogia nella metafora e nella similitudine) o per rendere intelligibile, durante una spiegazione, un concetto non familiare, paragonandolo a qualcos’altro, che è presumibilmente più familiare e con cui ha una certa somiglianza. L’uso delle analogie nella descrizione e nella spiegazione è diverso dal loro uso come argomento, anche se in alcuni casi può non essere facile decidere di quale uso si tratti. Così, in un manuale di genetica, potremmo trovare una spiegazione simile: «Il rapporto tra DNA ed RNA è del tutto analogo a quello tra semantica e sintassi (cioè, lessico e grammatica) nel linguaggio».
Per chiarire come funzioni un argomento per analogia analizziamo, l’esempio riguardante il mio nuovo computer, che (credo) mi renderà un buon servizio perché il precedente, della stessa marca, mi ha soddisfatto. Le due cose simili sono i due computer. L’analogia interessa tre punti, tre aspetti in cui i due oggetti si somigliano: 1. nell’essere computer; 2. nell’essere della stessa marca; 3. nel fatto che funzionano bene.
È evidente che i tre punti dell’analogia non hanno lo stesso ruolo nell’argomento. I primi due ricorrono nelle premesse, mentre il terzo ricorre sia nelle premesse che nella conclusione. L’argomento dato, in termini generali, può essere descritto come un argomento le cui premesse asseriscono che: primo, due cose sono simili sotto due rispetti e, secondo, che una di quelle cose ha un’ulteriore caratteristica, da cui viene tratta la conclusione che anche l’altra cosa ha quell’ulteriore caratteristica.
E se prendiamo in considerazione il processo accusatorio del sistema del common law, invece di stabilire in anticipo regole e principi rigorosi da cui dedurre in modo pressoché automatico le sanzioni, i giudici confrontano due casi – quello pregresso e già deciso; quello in esame. Se i due casi presentano rilevanti caratteristiche comuni, devono condividere anche la conclusione, secondo il principio del “precedente vincolante” (binding precedent o, alla latina, stare decisis).
Anche in politica l’analogia svolge una funzione peculiare: per replicare a un argomento analogico si usa negare l’esistenza dell’analogia o proporre una controanalogia. Immaginiamo che un presidente degli Stati Uniti (per esempio George W. Bush) abbia chiesto al Congresso di finanziare una missione militare in Iraq contro il regime di Saddam Hussein, asserendo che tale situazione è simile a quella che si è verificata in Afghanistan, dove gli Stati Uniti erano intervenuti perché il governo afghano dei Talebani (i famigerati “studenti” di teologia coranica) proteggeva i terroristi che avevano provocato il crollo del World Trade Center. Un senatore contrario all’intervento militare avrebbe potuto replicare replicare che tra i due casi non c’era nulla in comune, in quanto i Talebani sostenevano Al-Qaeda, gli iracheni no. In aggiunta, lo stesso senatore avrebbe potuto sostenere esserci piuttosto un’analogia con la guerra in Vietnam (spese militari fuori controllo, proteste, vittoria impossibile).
L’argomento si basa su una presunzione (infatti non vengono fornite prove): che sia, cioè, possibile confrontare, riscontrando delle analogie, due casi diversi. Per una rappresentazione schematica dei diversi argomenti si veda l’immagine 2.
Ma come valutare gli argomenti analogici? Per evitare l’arbitrio, abbiamo bisogno di qualche criterio condiviso (è una delle regole del Galateo).
Sebbene nessun argomento per analogia sia mai deduttivamente valido (infatti in esso la conclusione non segue necessariamente dalle premesse), tuttavia alcuni argomenti sono più convincenti di altri. I sei criteri proposti da Copi & Cohen nel classico Introduzione alla Logica, Il Mulino, Bologna 1999 fanno riferimento alla maggiore o minore probabilità con cui si possono affermare determinate conclusioni.
1. Il numero di oggetti tra cui dovrebbe valere l’analogia. Un gran numero di esperienze dello stesso genere con lo stesso oggetto aiuteranno a stabilire la mia conclusione (acquisto soddisfacente) con un grado di probabilità molto maggiore rispetto a una conclusione basata su un solo caso. Se ho comprato, in passato, un modello di computer una sola volta, posso rimanere deluso nel riscontrare nel secondo computer (che acquisto ora) dei difetti inattesi. Se, però, ho acquistato molte volte computer di quel modello, posso supporre che anche i prossimi saranno soddisfacenti come i precedenti. Non c’è un rapporto numerico diretto, però, tra il numero di casi considerati e la probabilità della conclusione. La conclusione di un argomento analogico avente sei esempi di riferimento nelle sue premesse non è esattamente tre volte più probabile di un argomento simile con solo due casi come premesse.
2. Gli aspetti per cui le cose considerate come analoghe differiscono pur avendo sempre in comune l’elemento che mi interessa. Quanto più diversi sono i casi su cui baso la mia conclusione, tanto più probabile è che la mia conclusione sia vera. Quanto più diversi tra loro sono i casi a cui si riferiscono le premesse, tanto più forte è l’argomento, per esempio, computer della stessa marca ma di modelli diversi.
3. Il numero di aspetti sotto cui le cose coinvolte sono individuate come analoghe. Quanto più grande è il numero di aspetti sotto i quali la particolare entità individuata nella conclusione dell’argomento è simile a quelle individuate nelle premesse, tanto più probabile è la conclusione. Magari i computer erano della stessa marca, avevano la stessa RAM, lo stesso schermo, li ho usati per gli stessi scopi e per lo stesso periodo di tempo (e continuerò a farlo con quello nuovo).
4. La rilevanza delle analogie. Non tutti gli aspetti hanno la stessa importanza. Alcuni possono essere irrilevanti e non dovrebbero essere usati per inferire una conclusione sulla base dell’analogia. Poiché i computer sono dello stesso produttore, io mi attendo che abbiano la stessa efficienza. Il fatto, invece, che io abbia comprato i computer sempre di martedì, non è rilevante. Tuttavia, potrebbe esserci disaccordo su quali analogie siano rilevanti per la conclusione affermata. Può essere discutibile quali proprietà siano rilevanti; il fatto che debbano esserci proprietà rilevanti, invece, non lo è.
5. Il numero e l’importanza delle disanalogie tra i casi menzionati soltanto nelle premesse e il caso considerato nella conclusione. Una disanalogia è un elemento di differenza, un aspetto in relazione al quale il caso su cui stiamo ragionando differisce dagli altri casi. Le disanalogie incrinano gli argomenti analogici quando le differenze identificate sono rilevanti per la caratteristica che ci interessa. Se il modello di computer che vogliamo acquistare è diverso da quello che utilizzavamo prima, o se è identico ma di un’altra marca, potremmo essere piuttosto scettici.
Va qui sottolineato che la replica a un argomento analogico può prendere la forma della presentazione di una presunta disanalogia rilevante. Se la disanalogia è forte, mettendola in evidenza demoliamo l’argomento in discussione, che si basa sull’analogia da noi criticata. Così, nei dibattiti legali, quando un caso già trattato è portato in un argomento come un precedente per la decisione del caso in questione, l’avvocato avversario cercherà di distinguere quel caso precedente da quello presente e in discussione; cercherà di mostrare che, poiché esiste qualche differenza critica tra i fatti del caso in oggetto e quelli del precedente, quest’ultimo non può fare giurisprudenza rispetto al presente.
D’altro lato, siccome la presentazione di disanalogie è la tecnica principale di confutazione di un argomento analogico, riuscire a neutralizzare la minaccia di una disanalogia aumenta la forza dell’argomento. Se torniamo al secondo dei criteri considerati (quello della varietà), notiamo che quanto più diversi tra loro sono i casi delle premesse, tanto meno probabile sarà che il rilievo critico di qualche disanalogia indebolisca davvero l’argomento. Così, una studentessa dell’Università Statale sarà in grado di arrivare alla laurea? Questo sarà tanto più probabile quanto più alto sarà il numero di studentesse e di studenti (poniamo dieci) che vengono dalla sua stessa scuola (prendiamo per esempio il Liceo Cremona di Milano), che avevano un rendimento scolastico simile al suo, e che si sono laureati nella stessa università. Se quei dieci, però, presentano un aspetto simile tra loro ma diverso rispetto a lei, allora l’argomento precedente ha un’intrinseca debolezza. D’altro lato, se i dieci casi non si somigliano affatto tra loro (differendo per sesso, situazione economica, condizioni familiari, chiesa di appartenenza e… fate voi) tali differenze neutralizzano eventuali pericolose analogie.
6. Infine, la forza della tesi sostenuta dall’argomento. In generale, quanto più forte è la tesi che si afferma, tanto più difficile è sostenerla. La moderatezza della conclusione tratta dalle premesse asserite è una considerazione critica nella valutazione dell’inferenza. Se tu, andando a 90 km/h fai 20 km con un litro con la tua automobile nuova, io potrei supporre, acquistando la stessa auto, di farne almeno 15. Supporre di farne esattamente 20 renderebbe più debole l’argomentazione.
Un’ultima funzione dell’analogia che prendiamo in considerazione è la confutazione. L’analogia può anche essere usata per provare che altri argomenti sono errati. La confutazione mediante analogia era la più consueta e determinante tecnica adottata da Socrate per sgombrare il campo dal supposto sapere dei suoi interlocutori: è possibile mostrare che un argomento non è valido esibendo un altro argomento, che si sa non essere valido, il quale abbia la stessa forma logica (deduttiva, induttiva ecc.); in tal caso, un’analogia confuta un dato argomento se è un argomento della stessa forma (o con una struttura molto simile) ma di cui si sa che le premesse sono vere e la conclusione è notoriamente falsa o è ritenuta altamente improbabile. Se si riconosce come invalido l’argomento analogo, si riconoscerà come invalido anche l’argomento dato.
Se, di fronte a un argomento che vogliamo respingere, siamo in grado di presentare un altro argomento avente la stessa forma ma fallace, la cui conclusione è molto dubbia, riusciremo a trasferire il dubbio anche sulla conclusione del primo ragionamento. Per esempio: se io sostenessi la necessità di invadere l’Iran per sconfiggere il terrorismo, il mio interlocutore potrebbe sostenere che la situazione è simile a quella dell’Iraq, dove l’invasione non ha certo portato alla fine del terrorismo. L’analisi dell’argomento si trova nell’immagine numero 3.
Questa tecnica argomentativa presenta conseguenze decisive: quando un argomento presentato come analogia ha la stessa forma di quello contestato, e quando il primo è fallace, allora l’argomento contestato è duramente colpito.
Ci sono dei segnali, delle indicazioni che ci troviamo di fronte a una simile argomentazione? In genere, quando sono espressi, si tratta di indicatori di dubbio, o ipotesi alternativa come: “si potrebbe altrettanto legittimamente sostenere che…”; “non più di quanto…” “sarebbe come dire che” ecc. Consideriamo l’esempio seguente: «Voi dite che il Ciad ha soltanto un’infarinatura islamica. Sarebbe come dire che la Francia ha soltanto un’infarinatura cristiana» (Copi & Cohen 1999: 483).
A tale argomento si potrebbe replicare rispondendo che, sì, effettivamente la Francia ha soltanto un’infarinatura cristiana. Si considererebbe cioè accettabile la presunta analogia confutante, ma se ne considererebbe vera la conclusione che, invece, chi la usa riteneva fosse falsa.
A questo punto, applicando i criteri di Anne Thomson, contenuti in Argomentare. E imparare a farlo meglio (Mimesis, Milano 2009), che alleghiamo nell’immagine numero 1, i lettori possono tornare ai due articoli citati all’inizio, e valutarli come si deve. Aspettiamo i risultati.
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