Berth e le radici del pensiero rossobruno

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17 Gennaio 2019

Il rapporto élite/masse, intellettuali/popolo è sempre più sul proscenio sia nelle questioni estetiche che in quelle più propriamente politiche. Lo era ai tempi di Berth (1875-1939), lo è oggi. Ed è la ragione principale per la quale ho preso questo libro tra le mani, per molti aspetti distante dalla nostra epoca storica  e zeppo, com’è, di riferimenti a un contesto intellettuale, la Francia della Belle Époque, così lontano da noi. Un libro che richiede, per la proliferazione dei riferimenti testuali e anche per la valenza semantica di alcuni termini ivi adottati (gli stessi termini “intellettuali” o “popolo”) più di qualche nota a piè di pagina di quelle offerte.  Eppure  a sforzo interpretativo compiuto, riverbera qualche luce capace di rischiarare il nostro confuso presente.

«Intellettuale», come sostantivo, è un neologismo inventato da Henri Saint-Simon nel 1817 ne  «L’Industrie» sulla base di un aggettivo preesistente e sul  modello analogo  del termine «industriale» sempre di suo conio. La divaricazione tra i due termini non era condotta sul crinale “improduttivo/ produttivo” come si potrebbe pensare (e come pensa in più punti di questo volume  lo stesso Berth), perché nel “sistema” di Saint-Simon (celebre la sua Parabola sui ceti produttivi/improduttivi) il discrimine era piuttosto tra coloro che contribuiscono alla produzione materiale e immateriale della società, compresi dunque gli intellettuali e gli artisti, e coloro che vivono nell’ozio, nella rendita, nella speculazione, nella spendita inutile di sé. Anche gli intellettuali sono “industriels”, come i 24/25mi  della popolazione,  nella visione di Saint-Simon.

Il neologismo lanciato  dal fantasioso pensatore e organizzatore sociale (segnalo che nel 2013 per le edizioni PUF è uscita l’edizione critica in 4 voll. delle opere complete di Saint-Simon) ebbe subito una rapida e straordinaria fortuna nella pubblicistica francese dell’800 raggiungendo il suo momento di maggior fulgore nell’epoca dell’affaire Dreyfus, ossia in concomitanza con la nascita dell’intellettuale engagé alla Zola, lo scrittore che difese l’ufficiale ebreo francese da accuse ingiuste.  Da allora, quasi per antonomasia, ma non cogliendo la verità dei fatti socioculturali , l’intellettuale è “di sinistra”, e la nuova denominazione inventata da Saint-Simon è rimasta magicamente  appiccicata solo su tale schieramento ideale, con tutti i riflessi di sospetto e di irrisione che si possono facilmente antologizzare tanto sono diffusi presso la communis opinio.

Anche in questo libro di Edouard Berth non è difficile repertare fiotti di astio indirizzati verso l’intellettuale “di sinistra” della sua epoca. I “crimini” degli intellettuali (che  traduce con una forzatura l’originale “méfaits”, visto che in francese esiste “crîmes”)  indicati da Berth, sono perlopiù indirizzati, ça va sans dire, verso i dreyfusardi, qui definiti “intellettuali buoni a nulla”. Ma non basta:  Berth va alla radice genealogica dell’intellettuale progressista, e non può perciò che colpire il bersaglio grosso dell’Illuminismo, la bestia nera di tanti anti-lumières, come ci ha indicato Zeev Sternhell. Anti-intellettualismo e anti-illuminismo vanno di pari passo da allora. Siamo al refrain, tipico dell’epoca e dell’ambiente intellettuale monarchico nazionalista, ma con qualche risonanza anche nella nostra, della “faute à Voltaire”. Non mancherà pertanto nel testo di Berth l’irrisione di Diderot, d’Holbach, Voltaire indicati come  lacchè.

Ma da dove nasce l’anti-intellettualismo di Berth, dunque? Quale la sua concezione della funzione degli intellettuali nel contesto della lotta di classe, oltre che nella cultura e nella vita dello spirito? Berth fu  un esponente  di primo piano del sindacalismo rivoluzionario, la corrente politica del socialismo che ebbe fortuna sia in Francia che in Italia dagli inizi del secolo XX fino alla Grande Guerra.  Suoi esponenti, che troviamo citati in queste pagine, furono Pelloutier, Lagardelle, Griffuelhes, e in Italia, fra i più noti, Arturo Labriola ed Alceste de Ambris.  Berth, come Sorel,  ebbe numerosi contatti con i sindacalisti rivoluzionari italiani e collaborò con la rivista “Il Divenire sociale” (1905-1910) diretta da Enrico Leone su cui scrivevano anche Roberto Michels e Vilfredo Pareto.

Ora, sui sindacalisti rivoluzionari  aleggiava il magistero di quella potenza spirituale che fu Georges Sorel, un intellettuale che tra Otto e Novecentoa ebbe un irraggiamento notevolissimo più in Italia che in Francia. A lui si deve il penchant anti-intellettualistico che si respira in queste pagine. Sorel aveva già pubblicato  nel 1898 il volume “Avenir socialiste des syndicats” e  nel momento in cui Berth raccoglie in questo volume i suoi scritti sparsi (1914), da sei anni erano uscite le “Considerazioni sulla violenza” (1908), il suo testo capitale.

La questione  di teoria politica di base del sorellismo va ricapitolata nei seguenti termini. Il maggior teorico del socialismo scientifico, Karl Marx, riteneva (vedi la celebre prefazione a “Per la critica dell’economia politica”)  che « una forma sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza». In questo schema di rigido materialismo storico, ovvero di severa dialettica tra forze storiche oggettive,  lo spazio per forzature soggettive, volontaristiche, era abbastanza ristretto se non nullo. Nel periodo tra  questo Marx –  quasi “positivistico” che concepisce che la storia, come la natura, “non fa salti” – e Lenin, il teorico di quel  partito rivoluzionario incaricato di accelerare, di “forzare” i tempi della maturazione storica -, l’istanza soggettiva, volontaristica, del socialismo europeo fu soddisfatta in massima parte proprio dal pensiero di Sorel.

Marx non volle o non ne ebbe il tempo di riflettere sui corpi intermedi che avrebbero dovuto accompagnare il proletariato alla meta finale della vittoria sul sistema capitalista, ossia il partito e il sindacato. Il primo, il partito socialdemocratico era stato costituito in Germania nel 1863 senza la collaborazione di Marx, il secondo, il sindacato, emetteva  i suoi primi vagiti a Parigi nel 1895 con le “Bourses du travail” organizzate da Fernand Pelloutier.  Ebbene, l’azione volontaristica suggerita da Sorel si sarebbe concretizzata attraverso il sindacato, l’organizzazione diretta della classe lavoratrice e non il partito fortemente infiltrato da funzionari e impiegati in genere  provenienti dalla classe borghese e impegnato in quella inutile arena politica che era il Parlamento dove si celebravano sterili logomachie,  e, soprattutto, senza la mediazione degli intellettuali, per opera degli operai stessi. In questa concezione Sorel si appoggiava più che sulle indicazioni di Marx  che, in uno statuto dell’Internazionale del 1864,  aveva scritto che “L’emancipazione della classe lavoratrice sarà opera della classe lavoratrice stessa”, sul pensiero di Proudhon, il quale aveva affrontato la questione in un volume, suo testamento politico scritto nello stesso anno 1864 ma uscito postumo nel 1865, intitolato  “De la capacité politique des classes ouvrières”, che il lettore troverà più volte citato nel libro di Berth, testo proudhoniano in cui l’autonomia operaia e la disintermediazione dagli intellettuali veniva postulate con più forza.

Ispiratore del “volontarismo” sorelliano fu il filosofo Bergson, anch’egli presente nella pagine berthiane per via, più che della sua dottrina dello “slancio vitale”, della sua critica corrosiva del positivismo, con cui il marxismo s’era commisto  in quel torno di tempo, determinando una stasi attendista nell’azione delle masse operaie, secondo il parere di molti impazienti, primi fra tutti proprio i sindacalisti rivoluzionari. Per molto tempo il termine bergsoniano, correttamente o meno corrispondente al vero pensiero di Bergson, verrà interpretato come “un volontarista o un pragmatista”  (v. A. Gramsci art. “Bergsoniano!” “Ordine nuovo” 2 gen. 1921), ossia un soggetto che interviene con la volontà e la prassi deliberatamente sul corso storico degli eventi per piegarlo al proprio volere.  Infine, e tornando ai sindacalisti rivoluzionari,  tutta la carica “immediatista” e volontaristica pigiava sul pedale dell’azione principale che allora veniva considerata “rivoluzionaria” dello sciopero generale. Noi siamo abituati a vedere questo strumento di lotta come un rituale stanco, ma nell’epoca in cui veniva concepito  e praticato (il primo in Italia fu nel 1904) esso non era un’azione come le altre, ma nella concezione di Sorel  e dei sindacalisti si colorava di una particolare aura mitica, era un vero e proprio “mito”, ossia “un fascio motore di immagini” che eccitava più la volontà che la ragione e soprattutto muoveva all’azione. A questo tipo di appello all “azione diretta”, è singolare rimarcare che in Italia oltre che i sindacalisti rivoluzionari, furono, ciascuno con le proprie motivazioni teorico-pratiche, particolarmente sensibili sia Mussolini che Gramsci, sorelliani fervidi e dichiarati.

Azione diretta, sindacato, sciopero generale, anti-intellettualismo, bergsonismo sono i tracciati teorici su cui si muove  questo libro di Berth.  Tuttavia il sorelliano, proudhoniano, bergsoniano Berth, si prende le sue libertà. Sorel, per esempio fu dreyfusardo. Berth invece  rivela in questo testo forti umori antiebraici (c’è una tirata contro Julien Benda in quanto ebreo),  astî antidemocratici che vanno al di là del disprezzo di Sorel per l’azione parlamentare in quanto infruttuosa per la causa del proletariato, mentre in Berth, ormai consegnato all’abbraccio di Maurras e Barrès, si traduce in critica in sé della democrazia. Forti sono in Berth gli  appelli alla tradizione, all’aristocrazia del sangue, dell’ereditarietà e della razza, estranei in Sorel; significativa la  magnificazione dell’energia fisica:  tutti elementi contrapposti all’Intellettuale palliduccio di cui è facile indovinare l’orientamento ideale e le sembianze  « questo mostro senza viscere, questo anacoreta dell’Idea pura, questa astrazione fatta Uomo», una sorta di esangue e slombato aristocratico dello spirito che «ha per il popolo un disprezzo trascendentale. Capite: il popolo, le donne, i bambini, tutto ciò che è carne, sensi, divenire, movimento».  Un ritratto che non è certo allusivo all’energico intellettuale di destra.

Berth, per quelle contrastanti componenti ideologiche di cui si nutriva, ricadenti  in un quadro psicologico fortemente ispirato da  istanze mistiche, antimaterialiste e spiritualiste, può apparire come una sorta di “mostro” mitologico,  ma non più di quei  tanti intellettuali che si agitavano  sia in Francia che in Italia in quel torno di tempo, sospesi tra fascismo e comunismo, o  lost in translation  tra i vari linguaggi ideologici fiorenti tra i primi del ‘900 (epoca in cui, ricordiamo, fascismo e il nazismo nascevano come polloni del socialismo) fino alla seconda guerra mondiale e che, dopo la fase dei blocchi ideologici, durata fino alla caduta del Muro, hanno ripreso negli ultimi decenni fino ai giorni nostri,  specie in seguito al vortice del neoliberismo e della globalizzazione a fondersi e confondersi, inestricabilmente.

È in questa temperie morale e intellettuale che questo libro di Berth è stato rilanciato in Francia da Alain Soral, l’ispiratore di “Égalité et  Réconciliation”, movimento che vuole coniugare “la sinistra del lavoro e la destra dei valori”, e suggerito come lettura ai suoi sodali facenti parte della “nebulosa rossobruna” come è stata definita da “Le Figaro”. L’editore italiano GOG che lo ha pubblicato nel novembre scorso mi è sembrato muoversi (mi sbaglierò) in questa medesima atmosfera intellettuale;  è stato fondatore del “Circolo Proudhon” in cui mi sono imbattuto talvolta in Rete,  clonato in Italia con la stessa denominazione con la quale Berth l’aveva fondato in Francia agli inizi del secolo scorso. È un giovanissimo intellettuale, a nome Lorenzo Vitelli, che mostra  il suo acume e la sua verve intellettuali nella introduzione che accompagna il volume.

A chi è  appassionato della storia delle idee, interesserà, più che la logica degli schieramenti, il viluppo in cui le idee si attorcigliano. Tanto più che quelle di Berth, che tanta parte recano le tracce del suo ispiratore Sorel, si muovono in una sorta di “terra di nessuno” tra le trincee  della  “destra” e della “sinistra” se seppero ispirare contemporaneamente, come si è accennato, due leader politici contrapposti come Mussolini da una parte e Gramsci dall’altra. Tentare di dipanarlo quel viluppo è opera di chiarificazione necessaria, da qualsiasi versante ideologico si parta. È questa quasi un’ operazione asettica, vivisezionatrice, già presente peraltro anche in alcune lucide  precisazioni critiche  della introduzione di Vitelli – allorché per esempio sottolinea la grande fragilità dell’anti-intellettualismo populista di cui sono beneficiari le forze politiche che in Italia hanno preso il potere. L’anti-intellettualismo, rimarca accortamente Vitelli, squalificando la figura e la funzione degli intellettuali consegna il monopolio del dibattito politico ai protagonisti spesso variopinti dello showbitz e se può servire a catalizzare il consenso, prima o poi dovrà «gentrificare il quartiere mortificato dell’intelligenza, per non diventare un fenomeno nichilistico».

Questo libro di Berth dunque  ritorna  utile alla chiarificazione del brodo di coltura in cui si muove il pensiero rossobruno che riempie le cronache culturali del nostro tempo, ciò beninteso se se ne sanno ricostruire non solo le genealogie ma interpretare anche  le  torsioni dialettiche cui queste idee, libri e personalità vengono sottoposti.

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Édouard Berth – I crimini degli intellettuali– GOG Roma, 2018.

TAG: Eduard Berth, Georges Sorel, Intelllettuali, rossobruni
CAT: Filosofia

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