Contro la meritocrazia

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15 Febbraio 2015

Uno spettro anglosassone si aggira per l’Italia: lo spettro della meritocrazia, ideologia imperante e incontrovertibile, vessillo di chi vuole cambiare e progredire, di chi si batte contro le lobby e la casta, di chi vuole superare l’italietta, di chi vuole uscire dal provincialismo, di chi è moderno, di chi è intelligente e giusto, di chi merita insomma.

 

Mi spinge a scrivere sull’argomento la lettura dell’ennesimo articolo sul tema (tu quoque, Stati Generali!?) che però in sostanza non dice niente se non che l’Italia non è meritocratica (e quindi non merita). Come spesso accade sul tema, il titolo illude di svelare un arcano: “come si misura il merito?” che poi in realtà elude e delude, rinviando semplicemente a sette indicatori tutt’altro che misurabili oltre che arbitrariamente stabiliti. Articolo quindi tutt’altro che meritevole, come quasi tutti i pezzi promotori della meritocrazia che mi è capitato di leggere.

Approfondendo la ricerca a cui il testo di Quattrocchi allude (forse avrebbe meritato un link) sono emersi dati interessanti che svelano la semplificazione ed i reali criteri che sottostanno a queste famigerate classifiche: per libertà s’intende sempre libero mercato (chi ha deciso che un paese fortemente liberista sia più meritevole di un paese socialdemocratico, o con maggiore intervento statale?). Il riferimento al livello di istruzione prende in considerazione i soliti dati OCSE su cui la discussione è aperta, difficile in ogni caso, pretendere di comparare oggettivamente(!?) sistemi educativi di nazioni e culture diverse attraverso parametri quantitativi.

 

Il termine “merito” è sempre più diffuso e usato, sintesi dei valori positivi che ci mancherebbero e che dovremmo conquistare; si moltiplicano studi, ricerche, statistiche, parametri, valutazioni internazionali, istituti votati a creare classifiche, tutti per dirci se siamo o no meritevoli, e nel caso italiano, specialmente nella sistematica diffusione che i media ne operano, servono per farci sentire quanto e come NON siamo meritevoli; perché il popolo deve provare un sentimento di vergogna per il fatto di non essere al passo con i tempi, con l’Europa con gli Usa, persino con la Cina… oggi c’è qualcuno che vorrebbe essere al passo con la Cina.

 

È interessante notare che il termine meritocrazia nasce con una connotazione negativa in un’opera distopica di Michael Young che immagina una società nella quale si crea una nuova e perniciosa discriminazione: gli intelligenti e i volenterosi, ossia i meritevoli, governano sugli altri, avendo in più l’arroganza di sentirsi nel giusto.

In Italia, al di là dell’utilizzo diffusissimo in ambienti assai variegati, uno dei punti di riferimento sul tema è il noto libro di Roger Abravanel, le cui posizioni sono presentate anche sul sito www.meritocrazia.com.

Di fatto la maggior parte dei sostenitori italiani della meritocrazia hanno l’obbiettivo di combattere le lobby, le raccomandazioni, gli sprechi nepotistici. Ed è chiaro che la battaglia è molto sensata, importante e va portata avanti. Si tratta di semplice buon senso, ma sono chiaramente necessarie, per affrontare il problema, una diagnosi ed una terapia. E su questo livello i meritocrati appaiono spesso latitanti o deludenti.

 

Che cosa e perché non mi convince della meritocrazia? Ecco dieci problemi su cui occorre riflettere.

 

1. Implicazioni e presupposti della meritocrazia.

Come si definisce il merito? Chi lo valuta? affronterò poi alcune di queste domande.

Soprattutto, la meritocrazia presuppone una concezione antropologica assai discutibile: chi infatti può affermare di meritare ciò che ha? Nessun uomo ha meritato di nascere, la vita è un dato originario, provenga essa da Dio o dalle stelle o dal dna o dalla Storia. Nessuno può incidere sul che e sul come iniziale del proprio esistere, che esso piaccia o no.

Affermare il merito come legge determinante della vita della società significa rischiare di trascurare questa fondamentale legge della natura umana.

Spesso si propone l’equazione MERITO=INTELLIGENZA+IMPEGNO. Anche in questo caso i presupposti sono tutt’altro che chiari e trasparenti: come si misura l’intelligenza? Davvero pensiamo che il QI definisca il nostro pensiero? Cosa significa impegno? In quale direzione direzione e prospettiva è meritevole impegnarsi?

Non dobbiamo inoltre tenere conto che non partiamo tutti dallo stesso livello? Che la vita è data significa anche che con essa sono dati dolori, contraddizioni, drammi. Cosa meritavano o demeritavano i migranti morti in mare dopo esser stati caricati su barconi da criminali senza scrupoli e abbandonati da un’europa ripiegata sul conteggio delle proprie monetine?

Un’altra opzione che spesso accompagna la meritocrazia è l’individualismo se non una concezione concorrenziale degli esseri umani: chi merita di più? Anche tale presupposto è discutibile: il merito è legato alla collettività, ciò che ognuno fa incide, serve, facilita ostacola, impedisce aspetti della vita altrui. Anche attribuire il merito ad un singolo risulta quasi sempre una forzatura.

 

2. La meritocrazia è sempre in atto, ma non è questo il punto.

Per lui meritavano di vivere solo gli ariani. Come si vede il problema non è che ci sia merito, ma quale sia il merito.

Per lui meritavano di vivere solo gli ariani. Come si vede il problema non è che ci sia merito, ma quale sia il merito.

 

Da un punto di vista logico il concetto meritocratico può essere insidioso e creare inaspettati cortocircuiti. Non prevale la meritocrazia? Forse non merita di prevalere. Non è un controsenso raccomandare la meritocrazia? Chi è meritevole, ottiene. O, vista dall’altro lato, una qualche forma di meritocrazia è sempre in atto nella società, altrimenti non avverrebbe alcuna stratificazione.

Ciò che fa la differenza allora non è che sia o meno premiato il merito, ma è cosa riteniamo meritevole. Se si vuole giustamente migliorare la società, è su questo che va fatta la battaglia, altrimenti si rischia di rimanere in vuoti formalismi.

 

3. Cosa è meritevole? L’opzione culturale.

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Conseguenza dell’osservazione appena fatta è che non si può considerare il merito secondo parametri universali. Farlo significa essere gravemente ingenui o perfidamente in malafede.

È più meritevole aver fatto un master internazionale o aver lavorato come barista in un quartiere malfamato? Saper sconfiggere molti nemici in battaglia o risolvere problemi di geometria? Aiutare i poveri della propria città o aver accumulato molti risparmi? Saper analizzare un testo o leggere repentinamente un cambiamento meteorologico?

È un merito non esser mai stati licenziati? Ed è un demerito esser stati licenziati per aver affrontato a viso aperto una capo tirannico che faceva mobbing al collega sfigato?

È chiaro che rispondere significa operare delle opzioni culturali. Noi nasciamo dentro concezioni culturali che assorbiamo fin da bambini e che crescendo possiamo riconoscere, accettare, modificare o abbandonare. Esse sono in atto quando immaginiamo o parliamo di merito, esserne consapevoli è fondamentale per non cadere nell’assurdo o nel fanatismo; anche perché spesso le opzioni sono tra loro in conflitto, ed allora, a seconda di quale sia la nostra cultura, il nostro giudizio di fondo, una stessa azione o scelta saranno meritevoli o immeritevoli.

(Cfr. tra gli altri: Barbara Rogoff, La natura culturale dello sviluppo, Cortina, 2004.)

4. Cosa è meritevole? Lo spazio delle scelte personali.

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Un rischio implicito nella meritocrazia è favorire il conformismo. Quali curricula sono più meritevoli? Quali scelte e atteggiamenti? Si rischia di ratificare modelli etici che in realtà sono scelte tra le altre, e non necessariamente migliori. Una questione “classica” può essere il rapporto lavoro-famiglia o lavoro-tempo libero. Un lavoratore che rifiuti di fare “le ore piccole” in ufficio per stare con la propria famiglia o per coltivare un interesse o una passione, o semplicemente perché vuole del tempo per se stesso è meno meritevole? Un mio amico è da poco tornato da uno stage in Giappone presso uno degli studi di architettura più quotati al mondo. La normalità che ha incontrato era di dormire poche ore in ufficio e riprendere a lavorare. Lasciare lo studio prima di mezzanotte era considerato un disonore. I più meritevoli erano coloro che decidevano di dedicarsi completamente al lavoro. Ma questa è una scelta personale non più legittima di altre (anzi).

(su conformismo, scelte lavorative e orientative si veda anche il rapporto ISFOL 2013)

 

5. Il rischio del servilismo.

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In ambito lavorativo (e non solo) è abbastanza comprensibile che risulti meritevole chi consegue obbiettivi stabiliti dai propri superiori. Occorre ricordare che tali obiettivi non sono il Bene Supremo? E che quindi i meriti acquisiti sono drasticamente relativi? È chiaro che, soprattutto nell’ambiente aziendale, il rischio di considerare meritevole chi acriticamente si sottomette al volere dei capi è alto. Chi pone problemi, chi critica, è meritevole? Chiaramente esistono situazioni e manager molto diversi, e talvolta capita di cogliere l’occasione preziosa che offre chi ragionevolmente e sinceramente mette in luce una difficoltà. Ma spesso il discorso meritocratico è funzionale alla disciplina e alla gerarchia.

 

6. L’adorazione del Denaro

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Spesso è valutato più meritevole l’atteggiamento economicamente più fruttuoso. Questo è visibile quando si parla di pubblica amministrazione, di gestione d’impresa e spesso anche in riferimento a carriere e scelte personali. Tutto così semplice? Davvero il Denaro è il criterio da anteporre ad ogni altro desiderio o considerazione umani? Forse la meritocrazia è spesso il mantello con cui si copre il plutocentrismo e l’ossessione economica della nostra politica.

Non è un caso che, come già fatto notare, quasi sempre i meritocrati, anche nel criticare corruzioni e sprechi, non propongono altro che il libero mercato o, meglio, una logica di mercato, per cui la condotta migliore sarebbe quella che produce più ricchezza. Ma questa filosofia di vita votata al Denaro produrrà davvero una valorizzazione dei meriti? E soprattutto, produrrà una società migliore di quella attuale?

 

7. Timeo Britannos, et mora ferentes.

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Non mi fido degli anglosassoni. Non mi convincono la loro libertà individualistica né la loro trasparenza efficientistica. Ho simpatia per i difetti italici, per il nostro essere recalcitranti alle regole, per un orgoglioso e cocciuto senso di libertà un po’ anarchico che porta i nostri dittatori a dire prima o poi che non è possibile governarci. So che producono tanti danni, e tanti drammi e non voglio, come dirò poi, difendere lo status quo. Dico però che la nostra cultura non è quella anglosassone. Non credo che la meritocrazia all’americana possa essere la nostra via. Abbiamo altre risorse, e molte di queste hanno a che fare con una tessuto sociale fitto, con legami personali e locali di collaborazione e solidarietà. Non bisogna buttare il bambino con l’acqua sporca.

Anche perché gli anglosassoni ci stanno già colonizzando il cervello da decenni con prodotti di massa comunicativi, sottoculturali, tecnologici, virtuali ecc…

 

8. Meritocrazia e tafazzismo italico.

Se cercate su internet o sui giornali la parola meritocrazia (in Italia) la troverete nel 90% dei casi associata al verbo “mancare” o simili. Sarà anche vero, ma non posso nascondere l’impressione che sia una tendenza autolesionista, una necessità di creare delusione, malcontento, vergogna, umiliazione. Insomma tutti sentimenti da cui poi è facile ripartire e far qualcosa di meritevole! Molto raro invece trovare il racconto di esempi positivi, eppure ne esistono molti, non ne conosciamo tutti qualcuno personalmente? L’impressione che si voglia mettere alla gogna un’identità culturale per imporre più facilmente altri modelli è in me molto viva.

 

9. Chi e come valuta? Da Dio a Tripadvisor

Si tratta ovviamente di un problema fondamentale posto dal concetto di merito. Il buon vecchio Kant, dopo aver impostato un’etica razionale e illuministica ha dovuto rispolverare il buon vecchio Dio perché senza un giudice non si riusciva proprio a convincere gli uomini a fare i bravi. E lui stava in Germania, figuratevi da noi.

Senza un impianto valutativo molto potente non può esistere meritocrazia alcuna. E visto che gli attuali maestri di cerimonia sembrano intenzionati a lasciare il buon vecchio Dio in solaio (in cantina sarebbe offensivo) tocca a noi trovare il modo di giudicarci. Il che non è affatto semplice, anche per molte delle ragioni indicate in questo articolo.

A scuola, ad esempio, la valutazione è un gran problema. Io ci lavoro e sono ben consapevole che la valutazione non è necessariamente proporzionale al merito: capita che uno studente che meriterebbe più che altro due affettuosi calci nel sedere ottenga voti discreti, mentre un altro, che si impegna in modo lodevole e meriterebbe premi quotidiani, fatichi ad arrivare alla sufficienza perché meno dotato, perché cresciuto in un ambiente culturalmente povero, perché ha meno strumenti o sta passando un periodo difficile. Per non parlare dei criteri, degli obiettivi, delle competenze, delle priorità ecc. giungere ad una valutazione davvero oggettiva è impossibile.

Inoltre l’ambizione degli amanti della meritocrazia è quella di poter quantificare (il mitico meritometro). Ora la valutazione quantitativa di qualunque aspetto qualitativo e vitale è evidentemente un’operazione delicatissima, una forzatura da compiere con perizia e consapevolezza di ciò che andrà irrimediabilmente perduto, se ciò non fosse chiaro vi meritate di leggere un paio di capitoli della Crisi delle scienze di Husserl.

Per noi perspicaci figli del web è forse sufficiente pensare a tripadvisor, il simpatico social-rating di alberghi ristoranti e quant’altro. Se ci si limita alla valutazione numerica ed alla relativa classifica non si capisce un gran ché, e si rischia di convincersi che si mangi meglio ad un baretto originale che ad un ristorante di aragoste. Se invece si leggono le recensioni ecco che il servizio risulta molto più efficace ed utile. Perché? Per due ragioni: la prima è che si esce da quantitativo e si passa ad una descrizione che io posso valutare in base ai miei parametri ed alle mie esigenze soggettive, il secondo è che dalla descrizione ottengo informazioni sull’autore, sul soggetto della valutazione, che invece l’illusione oggettivante del voto numerico aveva celato; a questo soggetto io posso sentirmi vicino o lontano, posso decidere se prestare o meno fiducia e quindi ricalibrare il valore della sua recensione. (tutti noi facciamo così, non credo infatti che un morigerato e rispettabile signore di sessant’anni escluda un hotel perché valutato negativamente da un quindicenne che nella recensione scrive “posto zero divertente, ci hanno rotto la minkia xkè alle 4 di notte ballavamo nudi in corridoio con la musica appalla…”).

 

10. Un’educazione meritocratica rischia di generare mostri

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Osservazione ultima, ma forse più importante e legata alla prima (il cerchio si chiude).

Ogni nostra azione, affermazione, scelta, atteggiamento educa chi ci sta intorno. Affermare il merito come valore fondamentale del nostro vivere comune, o ancor meglio affermare che il merito dovrebbe essere il valore fondamentale, ma purtroppo così non è e quindi è un disastro come educa i nostri fratelli uomini?

Mi ha colpito poco tempo fa sentire una maestra elementare raccontare che gli alunni (soprattutto le femmine, a onor del vero) già dalle prime classi vivono una forte competizione sui voti e tendono a leggere le scelte della maestra come misurazioni, approvazioni o riprovazioni delle proprie perfomance o abilità. Personalmente ho conosciuto alunni ossessionati dal voto (spesso studenti non a rischio insufficienza). Sul mondo del lavoro l’ansia da prestazione è sempre più diffusa e comporta sempre più spesso disagi e ripercussioni gravi su persone e famiglie. Ora non è che io voglia criminalizzare la meritocrazia, Abravanel o il buon Quattrocchi, ma è chiaro che non interrogarsi sul nesso tra una cultura sempre più abilista (dalla mamma del bambino che chiede come prima cosa “quanto hai preso” e come seconda “quanto ha preso Pinco Pallo” alle convention aziendali dove si “caricano” i dipendenti sui nuovo obiettivi da raggiungere) e la crescente incapacità di godersi la vita sarebbe da incoscienti.

(cfr. tra gli altri: R. Medeghini, L’inclusione nella prospettiva ecologica delle relazioni, in L’educazione inclusiva, Franco Angeli.)

Il bambino e lo studente liceale perdono il gusto del sapere che è donato loro. Perdono la possibilità di provare gratitudine come primo sentimento di fronte al privilegio e alla responsabilità cui sono chiamati. La vita non è recepita come dono. “Bisogna guadagnarsela!” E sarà dura far capire loro, più tardi, che è una malevola menzogna, o, a seconda delle sensibilità, una troiata pazzesca, e che ciò che si riceve è sempre incommensurabilmente superiore a ciò che si guadagna.

Il lavoratore perde il gusto del creare, del modificare e migliorare la realtà, del collaborare al bene comune, al servizio dei suoi simili. Il dovere, la paura e l’ambizione dominano le sue giornate. Ne abbiamo fatto un infelice che realisticamente lavorerà pure peggio di come potrebbe, se si gustasse la vita.

Si alimenta il risentimento, si propone come ideale la meschinità del riscatto sociale. E i soldi, quelli che ci siamo meritati, onestamente.

 

Conclusione

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Non voglio nemmeno io buttare il bambino con l’acqua sporca. Il concetto di merito ha sicuramente un valore grande per la nostra civiltà. Proprio per questo va capito. Va approfondito. Occorre interrogarsi su esso e non assumere come ovvi modelli vuoti o inadeguati.

In Italia soffriamo sicuramente una mancanza di trasparenza, di valorizzazione dei talenti e delle idee, di onestà. Ma non si risolve il problema rivolgendosi contro la nostra identità e storia.

Perché il corrotto o il fannullone dovrebbero redimersi e cambiare atteggiamento? Esistono ottimi motivi, che non vanno dati per scontati e che costituiscono i fondamenti ragionevoli della scelta di valorizzare il merito.

Non si è meritevoli per il gusto di esserlo. Diffido in chi lo diventa per ambizione: se la meritocrazia è una strada onorevole per gli arrampicatori sociali allora non mi interessa; provo rammarico per chi lo diventa per dovere o paura, non credo stia costruendo se stesso e nemmeno la società.

Io voglio avere merito di quel che ho intorno se percepisco che ciò che ho intorno mi merita.

Credo che la strada più bella per affermare il merito sia il desiderio di sentirsi in unità con una positività che ci viene donata e al tempo stesso affidata da preservare e valorizzare.

Mi sembra che nella nostra storia e nella nostra cultura ci sia molto merito di questo tipo da cui attingere.

Credo che molto della bellezza dell’arte o dell’architettura sorte in Toscana, Umbria, Campania o Sicilia sia debitrice verso la bellezza del paesaggio naturale donato agli uomini che in quei luoghi hanno vissuto.

Se la vita è dono, è bellezza donata, allora io voglio esserne degno, ed è un onore per me poter collaborare alla valorizzazione di questa bellezza.

Se come insegnate colgo il dono unico e prezioso che è la vita, il pensiero di ogni singolo studente che incontro, allora farò il possibile per essere un insegnante meritevole.

Non credo valga solo per me, che sia una mia specifica sensibilità.

Credo sia più umano e utile che ci chiediamo “cosa hai scoperto di bello e grande oggi?” piuttosto che “che voto hai preso” o “quanto soldi ha guadagnato, meritatamente”.

 

Se qualcuno ha avuto la pazienza di arrivare fin qui continuando nel frattempo a chiedersi “ma che c’entra la foto di Adriana Lima?” la risposta è: niente. Però merita.

 

 

TAG: Cultura, Educazione, Meritocrazia
CAT: Filosofia

10 Commenti

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  1. alfio.squillaci 10 anni fa

    Molto interessante. A suo tempo lodai il libro di Abravanel (che rovescia il paradigma di Young ma ne conserva paradossalmente la formula di fondo m= IQ+E), ma oggi ho qualche riserva soprattutto per la somministrazione massiccia dei test perorata da Abravanel (sulla scia non solo del mondo anglosassone, ma di … Singapore) . Mi persuade molto l’esempio che fai con i giudizi di Trip Advisor: hai bisogno della “spiega” per capire quali sono i meriti di un ristorante… Nella meritocrazia diciamo così “computazionale” di Abravanel salta questa componente da tipica intelligenza emotiva piuttosto che da secco QE. Poi ci sarebbero da dire altre cosette: tuttavia resta il problema che il nostro Paese se sta declinando è anche perché non riesce a selezionare una classe dirigente (e accademica) decente. C’entra qualcosa tutto questo con il contrario della meritocrazia, ossia clientelismo, raccomandazione, familismo ecc ecc? E’ questo il punctum dolens della questione: come aggredire questi morbi. Io ci sto ancora rimuginando sopra e non ho trovato una risposta soddisfacente… Grazie per l’acuminata analisi e per la verve.

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  2. andreaqua 10 anni fa

    Grazie della citazione, anche se ti invito a leggere con attenzione l’articolo (o semplicemente a leggerlo) dal momento che non contiene un mio giudizio sulla questione, ma solo la citazione di una ricerca. Capisco anche la necessità di partire con un attacco ad effetto e mi sento lusingato dell’accostamento ad Abravanel (al quale, piaccia o no, va riconosciuto il “merito” di aver sollevato il dibattito sull’argomento). Nel nostro Paese non sono mai mancati gli allenatori della nazionale e i polemisti…. Comunque, al di là dell’analisi filosofica tu cosa proporresti concretamente?

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  3. matteo.saini 10 anni fa

    Grazie @alfio.squillaci e @andreaqua.
    Forse sono stato eccessivamente polemico all’inizio dell’articolo, ne convengo, ma la diffusione di statistiche classifiche sul tema davvero mi sembra spesso sterile se non controproducente.
    Rispetto al tuo articolo, Andrea, immagino semplicemente che se hai deciso di scriverlo, avrai un interesse per il tema, ma potrebbe anche essere diversamente, non so. Rimane la mia perplessità sul rapporto titolo – contenuto.
    Rispetto alle domande su cosa fare, su quale proposta sia possibile, ribadisco quel che scrivo nella conclusione. A mio avviso la nostra crisi è profonda e va aggredita. A livello culturale, educativo, di concezione della propria vita. Peraltro il mio mestiere è insegnare, e questo è il mio compito e la mia responsabilità. Forse siamo tentati di pensare che esistano soluzioni più operative ed efficaci, ma rispetto a questo mi viene in mente una bellissima canzone di Gaber:
    http://youtu.be/7EnXOnpBQSU
    Amore
    non ha senso incolpare qualcuno
    calcare la mano
    su questo o quel difetto
    o su altre cose che non contano affatto.

    Amore
    non ti prendo sul serio
    quello che ci manca
    si chiama desiderio.
    […]
    Amore
    non ha senso elencare problemi
    e inventar nuovi nomi
    al nostro regredire
    che non si ferma continuando a parlare.

    Amore,
    non è più necessario
    se quello che ci manca
    si chiama desiderio.
    […]

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  4. daniel-predoi 10 anni fa

    Globalmente d’accordo con l’autore della Frusta Letteraria. Aggiungo che tutti i termini contrari citati, in un discorso culturale, potrebbero essere inglobati nel “nepotismo”, pratica di natura clericale, romana, quindi Italiana; una Cultura che non mi sento di difendere.

    Ingenerosa è però l’assenza dell’antitesi; ragione per cui non definirei questa un\'”acuminata analisi”, quanto la battaglia di Don Chishotte contro 4 liberali, contati in Italia, che non hanno seguito alcuno ne nella normativa e nemmeno nella prassi della società civile.

    Personalmente ci ho rimuginato un po’ e credo che il Merito sia l’approdo naturale della natura sociale umana che pur si fonda sul giudizio: rifiutare un sistema meritocratico significa rifiutare che il proprio operato venga valutato dalle parti sociali annullando qualsiasi senso di società: chi altri dovrebbe valutarci se accettiamo di stare dentro la società? L’aggressione del morbo non credo, quindi, possa essere diversa dall’accettare questo paradigma e rifiutare l’altro e non perchè quanto scritto nella tesi non sia vero, ma giudicare la metodologia di valutazione sbagliata – quello è il complesso – per buttare a mare l’intero sistema meritocratico è esattamente “buttare via il bambino con l’acqua sporca”. D’altro canto non è un caso che proprio la ricerca del Forum della Meritocrazia citata da Quattrocchi non mette in prima fila i Paesi Anglosassioni, ma quelli Scandinavi (c’entra la cultura, appunto), infatti le questioni della tesi citate spesso non sono il frutto di un sistema meritocratico, ma di uno strettamente concorrenziale: il primo si concentra sul premio per una qualità intrinseca all’operato, il secondo si fonda sul premio e i mezzi sono spesso secondari. Una persona dal forte senso meritocratico, non accetterà mai di truccare le regole del gioco; una persona dal forte senso di concorrenza sì.

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    1. matteo.saini 10 anni fa

      Grazie per le osservazione e le critiche, la cosa più preziosa è che si possa discutere in modo non banale del tema. Ti rispondo su un paio di questioni: non credo di aver negato il valore del merito e del suo riconoscimento sociale, anzi il mio intento è che possa emergere ciò che riteniamo realmente meritevole.
      Sono abbastanza convinto che in Italia la questione del merito sia spesso appiattita sulla dimensione concorrenziale; è chiaro che le due cose sono ben diverse, ma è altrettanto chiare che spesso l’una è la maschera perbene dell’altra.
      Non credo sia da sottovalutare la mentalità efficientistica e funzionalistica dell’uomo e del lavoro in Italia.
      I liberali politicamente saranno anche quattro gatti, ma quanto incidono sulla mentalità di certi gruppi sociali, soprattutto giovanili, istituti come la Bocconi, o compagnie come Mckinsey, Deloitte, Price, o vari studi di architetti o avvocati? Che valori comunicano?

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  5. diego.terna 10 anni fa

    Sono stato indeciso per un po’ se commentare o meno l’articolo (certo, dirai, nessuno te lo ha chiesto), perchè è un testo molto strano.
    Io, personalmente, non capisco esattamente dove voglia arrivare e quindi te lo chiedo. Alcuni commentatori hanno già evidenziato alcuni critiche che mi sembrano importanti e non mi pare si sia raggiunta ancora una risposta, per cui le ribadirei, soprattutto considerando che il tuo lavoro ti porti a esprimere una opinione concreta sul da farsi quotidianamente con i tuoi alunni.

    Alcune cose che scrivi sono inevitabilmente condivisibili, anche se spesso mi provocano un’irritazione pazzesca, per esempio lo strizzare l’occhio ai nostri “difetti italici, per il nostro essere recalcitranti alle regole, per un orgoglioso e cocciuto senso di libertà un po’ anarchico”, che, mi sembra di capire, sia visto in un’ottica tipo “siamo creativi e geniali, quindi anche se siamo un po’ dei cazzoni va bene”, che è un po’ un concetto buonista che passerebbe in una discussione a sanremo, o all’arena di giletti.
    Ma, problemi miei, direi.
    Quello che mi sembra chiaro, ma non mi convince, è il valore che uno dovrebbe dare al proprio lavoro: continuando il tuo esempio sugli studi di architettura, io stimo molto chi è capace di mettere da parte tutto per raggiungere uno scopo. Se questo significa lavorare 20 ore al giorno, non costruire una famiglia, non organizzare partite di calcetto infrasettimanali, poco male. Quando scelgo una persona che lavori con me, la voglio brava, sgobbona, dedita, in poche parole, meritevole: se poi è pure simpatica, con prole a seguito e approfitta di ogni momento libero per andare a godersi i paesaggi montani, tanto meglio, ma non indispensabile (per evitare risposte facili; ritengo positivamente sgobbone e assolutamente indispensabile che un architetto faccia altro, oltre a stare in studio a disegnare: visitare mostre, leggere, studiare, guardare film, partecipare a conferenze, ascoltare musica, viaggiare).

    Per arrivare al punto, quello che non mi è chiaro, è come tutto questo testo si incassi in un ambiente dove meritocrazia è diventato un termine che si usa come contraltare di quello che avviene nella quotidianità italiana: il figlio del docente che diventa lui stesso docente, il concorso pubblico truccato e disegnato ad hoc su un candidato, il politico superpagato che è nel consiglio regionale per meriti, appunto, poco consoni.
    La parola meritocrazia, allora, serve semplicemente a discriminare il tipo di merito: è chiaro che elargire favori sessuali per diventare ministro è un certo tipo di merito, ma si scontra col fatto che se divento ministro delle finanze, una certa conoscenza dell’economia dovrei averla.
    Tu parli di bellezza del paesaggio: io credo che lo scempio che abbiamo avuto, non da ieri, sia dipeso essenzialmente dall’incapacità (dal poco merito, direi) di chi lo ha modificato: il singolo privato, l’amministrazione pubblica, i progettisti.
    Diciamo che ripropongo la domanda di Alfio Squillaci e Andrea Aqua.

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    1. matteo.saini 10 anni fa

      Grazie per le osservazione e le critiche, sono contento che sia nata un po’ di discussione, a mio avviso è la cosa più preziosa. C’è n’è bisogno. Sono emersi molti temi e molte domande, magari, se riesco scriverò un altro pezzo per rispondere bene.
      Nel frattempo cerco di rispondere almeno su qualcosa. L’Italia ha un patrimonio storico culturale immenso, che poggia su una libertà precedente e diversa da quella liberista anglosassone. Pensiamo all’atteggiamento dei comuni nei confronti di Barbarossa. Non sono stati ligi alle regole, avevano altre ragioni che hanno deciso di far valere. Da quella mossa di libertà sono derivati 400 anni ricchissimi, che hanno fatto la civiltà europea. Secoli pieni di contraddizioni, errori e violenze, ma quelli, ahinoi sono sempre drammaticamente presenti nelle società umane. Ma che ideali, che sforzo di conoscere, che desiderio di bene comune, che intelligenza dell’umano si sono espresse nel frattempo!
      Mi si chiedono “soluzioni concrete”. Non ne ho, ma soprattutto non ci credo. “Concreto” è un altro termine che andrebbe ripensato a fondo, magari a partire da Hegel.
      Non voglio fare l’ingenuo o il romantico quando propongo “il desiderio” di Gaber come risposta: davvero per me il cambiamento, il miglioramento, la correzione nascono dal desiderio di bene, e il desiderio dalla gratitudine e dalla bellezza.
      Chiaramente nulla è scontato o automatico. L’uomo è libero. Libero anche di deturpare la bellezza. Per questo il lavoro più importante è quello culturale ed educativo.
      Domanda sul lavoro e sull’ipotetico architetto. Se lavora 20 ore al giorno (ma anche “solo”14) come può vedere mostre, leggere, arricchirsi umanamente?

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  6. astaiti 10 anni fa

    Io sono del tutto d’accordo con Matteo Saini. La cosa interessante è che la meritocrazia in ambito educativo genera interessanti corto-circuiti con il liberismo. Ad esempio, in un mondo come gli Stati Uniti, dove il diploma universitario ha un valore di mercato e frutta un posto lavorativo più o meno prestigioso allo studente, è impossibile valutare veramente il lavoro degli studenti, generando così il problema della grade inflation. Se i miei studenti rappresentano la qualità dell’università-azienda, perché dare loro brutti voti? Vedi Harvard (http://hereandnow.wbur.org/2013/12/04/harvard-grade-inflation) dove un professore è arrivato a dare ai propri studenti due voti, quello ufficiale, d’immagine (invariabilmente A) e quello reale, tanto perché sappia come è andato veramente lo scritto. Il problema è: o si fa bene perché far bene è cosa buona è giusta in sé oppure non si fa bene. Occorre togliere il suffisso “-crazia” e lasciare il merito, da perseguire come fine in sé.

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  7. zamor 10 anni fa

    Ciao condivo molto quello che hai scritto anche l’ultima riga.
    Per ciò che concerne il cosa proporre:
    Intanto disvelare l’apparato pseudo oggettivista dei sistemi di valutazione in essere credo sia già meritevole..
    Poi in ambito aziendale del quale mi occupo io credo che la strada sia quella della reversibilità, provo a spiegarmi. Se rispetto ai parametri interni io partecipo ad un progetto particolarmente interessante e ho la possibilità e voglia di dare di più della media perché non essere premiato? Ma il più delle volte questo in azienda significa assumere un ruolo superiore nella scala gerarchica e qui casca l’asino..magari l’anno dopo mi innamoro, mi nasce una figlia ecc…. E chi ha voglia allora di lottare ogni giorno per il ruolo che ho……ecco io credo che ci debbano essere molte più possibilità di muoversi all’interno dell’organizzazione e. Che quindi il merito possa essere molto più tranquillamente essere riconosciuto in maniera puntuale senza che diventi una sorta di giudizio universale ad opera di una gerarchia fissa….

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  8. alessio-mazzucco 9 anni fa

    Ottimo articolo. Il finale lirico whitmaniano faceva un po’ “L’attimo fuggente” (Qual è il senso della vita? Che tu sei qui, che il grande spettacolo continua e tu puoi contribuirvi con un verso), e mi sei (posso darti del tu?) un po’ caduto sul commento in cui tiri in ballo la Bocconi (essendo un Bocconiano mi sale sempre un po’ di stizza quando l’Università viene citata come esempio politicamente malvagio del liberalismo transnazionale). Ma tant’è. Hai sollevato un argomento spinoso ed eccezionale, la meritocrazia, che si lega a doppio filo con quell’altro tema altrettanto eccezionale, la giustizia – in senso lato naturalmente: qual è la giusta distribuzione delle ricchezze? Cos’è giusto? Cos’è sbagliato? Chi è giusto che meriti e così via… Ottimo, partiamo di lì.
    Nel discorso pro o anti meritocrazia c’è una fallacia logica di fondo che ho sempre trovato insopportabile: l’idea di poter dare una definizione assoluta. Il merito è: tac. E la meritocrazia è quel regime in cui il merito prevale: un discorso semplice e pulito. Ribaltiamo la questione e non chiediamoci cosa sia il merito in assoluto, ma per noi. Perché dovrei meritare qualcosa, un lavoro, soldi o un voto alto? Perché, agli occhi della società/mercato del lavoro, io valgo una certa quantità di soldi/voti/riconoscimenti arbitrariamente misurati su un insieme di valori non predeterminati, ma insiti nella cultura della società, e quindi mutabili nel tempo e nello spazio. In breve, un manager mi dà lavoro se pensa che le mie capacità possano produrre qualcosa per la sua azienda, mi manda a casa se pensa di essersi sbagliato. Il manager, così come un qualunque altro individuo, non si chiede se io, persona fisica, “Alessio”, meriti in assoluto, in astratto, se io sia la rappresentazione fisica dell’idea di merito (ricordano qualcuno queste parole?), ma si chiede semplicemente se in quel dato momento, in quel dato settore, io meriti fiducia. Verrebbe da dire “E’ il mercato, bellezza” e invece diciamo solo che è stato, è e sempre sarà così, perché si preferirà sempre un medico bravo a uno meno bravo per farsi curare e un muratore più abile a uno meno abile per tirar su la propria casa.
    Abbandoniamo per un attimo i lidi del mercato e parliamo di merito in Italia. C’è? Non c’è? Sarebbe inutile citare esempi (un esempio non fa una statistica) così come ricerche statistiche quantitative (giustamente, dici tu, c’è un’enorme area grigia di definizione che non può essere facilmente colta dall’econometria o chi per essa). Io dico “il merito in Italia non c’è”, e non lo dico per indottrinamento bocconiano, fede anglo-liberale o inception americana, ma per un ragionamento molto molto semplice. Il merito manca laddove ci sono troppe regole. Che significa? Buona domanda. Le regole limitano tutto quel che è diverso da quanto predeterminato da un atto d’imperio di un gruppo di potere. Ovvero, non importa quali siano le mie soft-skill o hard-skill, l’importante è rispondere a requisiti scelti fuori di me, che posso avere (che fortuna!) o no (mi spiace, sei fuori). Poco chiaro? Faccio un esempio: che senso ha dire che il mio stipendio e la mia carriera nella pubblica amministrazione/settore privato avanzano per anzianità e non per obiettivi raggiunti? Un sistema di questo genere può esistere solo per emanazione legislativa su indicazione di un gruppo che ha paura della competizione di altri, e un sistema di questo genere può esprimersi solo in un Paese dove questa idea malsana sia diffusa e accettata, dove la competizione è vista come il male (fratelli, non mettiamoci l’uno contro l’altro!) e chi merita per mille ragioni e mille motivi se ne va, semplice e pulito, a cercare posti dove le opportunità sono sfruttate e le proprie competenze messe in pratica.
    Arriviamo al tema giustizia. Nelle sue lezioni harvardiane, Michael Sandel si domandava se sia giusto che un giocatore di basket guadagni milioni quando il suo asset principale è l’essere più alto di 2 metri (caratteristica puramente genetica); noi, più prosaicamente, chiediamoci cosa accadrebbe allo stipendio di Totti se in Italia lo sport più seguito fosse il curling e non il calcio: otterremmo un ironico e oltremodo divertente cambio di prospettive salariali del capitano della Roma. Alla domanda “è giusto o no che guadagnino così tanto per una caratteristica fisica?” io rispondo che preferisco di gran lunga così invece di ritrovarmi un gruppo di persone che votano decidendo chi o cosa meritino di più di altri. L’uomo è imperfetto: all’imperfezione non aggiungiamone altra con l’imposizione esterna.
    Arriviamo al punto nodale del titolo: la meritocrazia. Ah! Cavallo di battaglia di chi sfida la feroce chimera della cultura a stelle e strisce! Meritocrazia, di cui notavi giustamente l’origine in “Potere dei meritevoli” indica nient’altro che la Repubblica platonica, dove i meritevoli erano i filosofi, gli unici in grado di condurre il popolo verso il sol dell’avvenire. Sì, la meritocrazia è una distopia spaventosa, ma non ha niente a che vedere con il concetto di merito. Da qui la domanda ultima che ti pongo: che cosa accomuna un titolo come “Contro la meritocrazia” con la valorizzazione del merito?

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